TRAMA
Parigi, 1817, Accademia Reale di Medicina. “Non ho mai visto testa umana più simile a quella delle scimmie”. Di fronte al calco del corpo di Saartjie Baartman, l’anatomista Georges Cuvier è categorico. Un parterre di distinti colleghi applaude la dimostrazione. Sette anni prima, Saartje lascia l’Africa del Sud con il suo padrone, Caezar, per andare ad offrire il suo corpo in pasto al pubblico londinese delle fiere e degli zoo umani. Donna libera e schiava al tempo stesso, la “Venere ottentotta” era l’icona dei bassifondi, promessa al miraggio di una società dorata
RECENSIONI
Abdellatif Kechiche narra con documentata minuzia frammenti di vita di Sarah Baartman, Saartje, Venere ottentotta. Vénus noire. Ed è una narrazione che procede per accumulo, situazione su situazione, in quadri sostenuti da un chiodo fisso: la società come società dello spettacolo, il guardare come forma di Potere. Il furore di Kechiche è struttura, è la claustrofobica gabbia di sguardi che sostiene il film, messa in scena del (dis)piacere dell'atto di guardare, dell'umiliazione perversa del farsi guardare, appello costante e perturbante agli occhi di chi fonda la sua essenza sulla vista, lo spettatore. Occhi su occhi, tra gli zoo umani, i laboratori scientifici, gli aristocratici salotti. Le performance di Saartje sono una via crucis verso l'annullamento, identità soffocata dal sadismo scopofilo, la riduzione di un soggetto ad oggetto. Dice Kechiche "Saartje non si offriva senza barriere al pubblico, era costantemente violentata da tutti. Quello che la gente vedeva non era lei, ma una caricatura: non era quello che lei voleva dare era ciò che volevano vedere. Conformarsi al modo in cui l'altro ci guarda, quando il suo sguardo è degradante, è doloroso, complesso. [...] Saartje non doveva esprimersi, doveva illustrare un discorso, dare ragione alla mentalità di quell'epoca. Era prigioniera del modo in cui gli altri la vedevano. In fin dei conti è forse il tema principale del film: l'oppressione dello sguardo degli altri". Il cinema registra questo processo, con un'attitudine post-coloniale radicale: rigetto assoluto dello psicologismo, rifiuto del pre-giudizio: le motivazioni dei personaggi sono opache, si manifestano in un'intima, esponenziale contraddittorietà nella datità dei fatti inscenati, in immagini che sanno cogliere sfaccettature più di qualsiasi parola, in sequenze che si susseguono comunque inesorabili, ché la complessità stratificata delle intenzioni non redime, ché la filosofia di Kechiche è comunque (incipit docet) ineluttabilmente determinista."Per quanto Caezar pensi ad arricchirsi è attraversato da ossessioni artistiche. Réaux è un regista che farà di tutto affinché lo spettacolo appaghi le attese del pubblio. Perfino Cuvier manifesta, al di là delle ambizioni scientifiche, una riflessione sull'estetica." I suoi sono personaggi dal doppio segno, assorbiti da un'intenzione, limitati da un obiettivo: sfruttare Saartje, centro di un panopticon inverso vorace (e, infine, necrofilo). Oggetto estetico (consenziente: Kechiche non semplifica mai, non cede a escamotage retorici facili, non inquadra Saartje in uno stereotipo) per un pubblico. Lo spettatore guarda il corpo della Venere Nera, guarda un pubblico guardare. Viene interpellato, chiamato a una riflessione etica sfiancante sul cinema, arte dello sguardo. Così guarda un pubblico annichilire l'oggetto del desiderio a inerme siginificante, (ab)usato ad esemplificazione di discorsi precostituiti, termine di conferma di certezze ideologiche cieche anche quando progressiste (si veda, per tutte, la sequenza in tribunale). Sempre simbolo, umano solo se conviene. Pura, triviale exploitation. Il cinema di Kechiche, all'opposto, ha il pudore, l'ardire e l'ardore di affermare uno sguardo liberato: il suo è un dispositivo di mostrazione devastante, privo di tesi, se non ciò che è il reale a imporre, se non ciò che è il reale a immergere nella problematicità. Perché il suo behaviourismo, che frustra la pretesa drammaturgica, non è una dichiarazione di superiorità morale, ma, innanzitutto, una scelta di politica della visione fatta stile. Tra Freaks, La donna scimmia, Elephant man e, soprattutto, Lola Montes. Il miglior film di Venezia 67.
Le ragioni dello sguardo
È un viaggio impegnativo quello in cui Abdellatif Kechiche trasporta lo spettatore. Un viaggio senza ritorno negli abissi dello sguardo, nei meandri della degenerazione umana. Il punto di partenza è il corpo di Saartjie Baartman, la cosiddetta “Venere ottentotta”, la schiava proveniente dall’Africa e mostrata negli spettacoli parigini e inglesi alla pari di una qualsiasi bestia feroce, come un oggetto da guardare ma anche toccare, ammansito per spaventare, obbedire e incuriosire. Un fenomeno da baraccone ingannato in nome dell’arte e poi dell’amore, schiava perché incapace di abbandonare un gioco che la fa soffrire, ma anche libera in quanto immune da impedimenti morali. Un personaggio realmente esistito, il cui calco del corpo in gesso ha continuato a essere esposto al Museo di Storia Naturale di Parigi fino al 2002. In chi la guarda si avvicendano i più diversi e conflittuali stati d’animo, a seconda della cultura, dell’istruzione, del sentimento. Il pubblico dell’epoca (la vicenda è ambientata nel 1817) mediamente stava al gioco, anche se qualcuno inorridiva davanti a tale mercificazione; la scienza, invece, cercava risposte razionali per avvalorare tesi sull’inferiorità biologica di alcune razze umane. Ognuno aveva le sue ragionevoli motivazioni per trarre dal corpo della protagonista qualcosa: sdegno, godimento, guadagno, sprezzo, rabbia, conoscenza. Lo sguardo diventa quindi molteplice e il pregio del regista tunisino è quello di farsi voce di un sentire differenziato senza scendere in facili giudizi, ma lasciando che lo spettatore, a cui nulla della via crucis della protagonista viene risparmiato, abbia il modo e il tempo di trovare una sintonia, tutt’altro che rassicurante, con il perdersi del personaggio. Ai tanti occhi puntati su Saartjie si contrappone lo sguardo della donna: quasi mai complice eppure fiero, presente eppure distante, indifferente ma segnato dal dolore, con cicatrici che diventano irreversibili ferite sul cuore. Nonostante una consapevolezza che non la rende parte di un gioco, ma solo elemento cardine del gioco di altri, la protagonista non trova la forza per distaccarsi da un destino virato al nero, da una dignità costantemente violata e la sua discesa agli inferi appare subito inevitabile. Per creare uno stato d’animo preciso e meticolosamente documentato Kechiche si prende il suo tempo (e, di conseguenza, anche il nostro), attraverso uno stile affine alle sue opere precedenti: lunghe sequenze in cui il confronto tra tanti personaggi concorre a focalizzare un punto di vista, con dialoghi all’apparenza fuorvianti in realtà da valutare considerando lo stato d’animo finale a cui conducono. Un cinema, quindi, non certo facile, che mette a dura prova, e non tanto per il minutaggio debordante, quanto per la forza con cui è in grado di coinvolgere e sconvolgere, configurandosi come potente e non banale riflessione sul concetto di diversità.
Il discorso indignato sulla violazione, al contempo di un corpo, di una razza e della dignità umana, non è semplicistico (e nemmeno, volutamente, risolto): a parte sorprendere favorevolmente per la cura del dettaglio nella ricostruzione storica, Abdellatif Kechiche parte con l’evidenza da Elephant Man, con lo sguardo che ferisce più della diversità, e ammanta d’ambiguità il ruolo della protagonista, fra connivenza psicologica, stato di schiavitù, complicità, Commercio e Arte, confini labili di un apologo che si allarga sorprendentemente. Sarah, in parte, si raffigura come un’artista, in parte si sente costretta, in parte desidera solo fare soldi per tornare in patria e lenire il dolore di un figlio perso facendone un altro, in parte è vittima di manipolazione, in parte crede di controllare ancora la propria esistenza: la sua realistica incoerenza si riflette, volutamente, nell’opera e nell’alternarsi di reazioni benevolenti e violente dei personaggi che la strumentalizzano. Il talento più evidente di Kechiche alberga negli sguardi corali, nel modo con cui, con un montaggio spedito, accosta in Primo Piano volti straordinariamente “veri” ed espressivi di varie comparse: apporto fondamentale in una pellicola che, lungo la considerevole durata, è quasi esclusivamente composta da “spettacoli” della venere nera e reazioni del pubblico. Qui s’innesta un altro discorso magnifico, sulle differenti violazioni che può effettuare uno sguardo, inerpicato anch’esso nel metadiscorso su realtà e sua rappresentazione: l’unica volta che la venere nera, decretando l’abbandono dei suoi “tutori”, si ribella al “pubblico”, è quando il consesso di “dotti medici e sapienti” (direbbe Bennato) paga i suoi “padroni” (lei non vene interpellata) per denudarne il corpo e paragonarlo ai primati. Non le permettono di esprimersi come un’artista, la vogliono immobile, e quegli sguardi asettici della Scienza non li accetta come ha accettato, pur ponendo dei limiti, la morbosità e curiosità di chi, a teatro, la crede una bestia o la lussuria di chi vuole possederla perché oggetto esotico o l’avidità dei suoi “domatori”. Il paradosso è che (vedere i titoli di coda) è stata condannata a essere guardata (quasi) per sempre. L’Italia omofobica si allinea con un altro tipo di violenza dello sguardo, quello della censura: la versione circolata al cinema non si pone problemi sulle forme, masticate a vario titolo, del corpo femminile ma, se si tratta di mostrare un pene (benché finto) o una fellatio, declina.