TRAMA
Ricco e bello, David Aames conosce Sofia e l’amore che diceva di non cercare. Ma il destino e una donna del suo passato prossimo lo condurranno in un vortice di vicende misteriose in cui realtà e sogno sembrano mischiarsi.
RECENSIONI
Hollywood fagocita la giovane Europa del cinema ed espelle un ibrido mostruoso che potrà apparire diverso e intrigante solo a chi non abbia visto il (non eccezionale ma interessante) film di Amenabar APRI GLI OCCHI di cui VANILLA SKY costituisce il remake. La Mecca del cinema, dunque, continua ad arraffare idee dove può, guardandosi bene dal mantenerne integro il potenziale eversivo, piegandole ai suoi vetusti canoni grossolanamente spettacolari, alla rassicurante convenzione, alla triste magniloquenza da blockbuster. Se Amenabar nel suo film, pur nella banalità dei dialoghi e con l'ingenuità di un armamentario simbolico piuttosto raffazzonato riusciva, in virtù di una stringatezza e di una capacità di dipingere atmosfere (abilità confermata nell'ultimo THE OTHERS), ad avvincere ed intrigare, si sente lontano un miglio l'odore della paura di Crowe che, intuendo le possibilità di successo di un remake, ma giudicando l'astrusità dell'intreccio troppo rischiosa per un pubblico tutto popcorn come quello statunitense, smussa gli angoli, cerca di fare luce chiarissima su tutti gli snodi narrativi, inserisce le consuete ammiccanti soluzioni (personaggi, situazioni, battutine stravisti strasentiti strazianti) che denunciano chiaramente la necessità di archiviare il film sotto "Operazione Volgare" . Del resto cosa ci si poteva attendere da un regista mediocre, mediocre sceneggiatore, che dirige un mediocre attore di enorme successo (qui anche nelle vesti di produttore) se non una pappa standardizzata pronta per essere ingoiata con gusto da uno spettatore onnivoro e svogliato? Non sorprende dunque che le cose migliori siano quelle fotocopiate dall'originale (la serata al locale) e che tutto il resto sia gonfio e dilatato all'inverosimile da luoghi comuni, citazioni patetiche (la nouvelle vague al muro), comparsate che dovrebbero fare simpatia (Spielberg tra gli invitati alla festa), condito con musica di serie A (Radiohead, Chemical Brothers, persino l'ipnotica INDRA dei francesi Thievery Corporation etc.), con la Cruz a ricoprire lo stesso ruolo che aveva nell'originale e la Diaz a fare la guastafeste (la più antipatica e la migliore del terzetto). Lascia di stucco (non ci arrendiamo, continuiamo a stupirci nonostante ormai non ci si attenda nulla di diverso) la disinvoltura con la quale le major americane riescano a svilire qualunque opera del Vecchio Continente riprendano in mano, la sottovalutazione di un pubblico che non "può" andare a vedere il film originale, che "deve" esserne informato a mezzo di una rozza traduzione dello stesso in un linguaggio semplificato che sia in grado di comprendere; lascia di stucco e avvilisce, avvilisce e fa rabbia. Fa rabbia perchè non si sente alcuno sforzo di realizzare qualcosa di nuovo, diverso o anche semplicemente degno, solo quello di creare un prodotto che soddisfi un basso istinto (dello spettatore e del produttore). Ecco che il film, dunque, oscilla perplesso tra thriller, fantasy, love story senza fare di questa confusione un pregio come nell'originale, che viveva bene proprio di questa indecisione, ma solo una tela bucherellata nella quale inserire domande esiziali quali "Cos'è la felicità?", "Credere nell'amore?", "La vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio?", rimanendo dalle parti di Marzullo, mezzanotte e dintorni della ragione, tutto quello che molti amerebbero ascoltare o vedere in una sala cinematografica, immagino... A suggello un finale di lampante chiarezza che dissipa quel tanto di dubbio di un'ulteriore messa in abisso che nell'originale riscattava l'artificiosità dell'epilogo. Operazioni di cinico mercato perchè vorrebbero passare per trasversali tentativi di intrattenimento intellettuale e si traducono in campionari del ridicolo, perchè prive di coraggio, prive di una vera passione per quello che si sta mettendo in scena, pronte a essere modificate non appena un'arditezza o la possibilità di perdere un biglietto venga a fare capolino. Monkey see, monkey do: cinema da primati alla faccia dell'evoluzione, cinema che svende pattume sotto forma di sogni. Aprite gli occhi.
Quasi un remake. Praticamente un clone. Crowe assimila l’esperienza Kubrickiana e la ripropone in un film che perde la consistenza formale e il rigore di Eyes Wide Shut, e viceversa concede facili strizzatine d’occhio al pubblico e si adagia sulla presunta irresistibilità degli interpreti. Gli elementi ci sono tutti: Tom Cruise, la gelosia, la maschera, il benessere economico, l’evento mondano foriero di incontri e cambiamenti, la grande mela. Kubrick, con i suoi esterni girati in teatri di posa, la sua assoluta e imperturbabile compattezza nel montaggio, la sua visione di New York “like you would see it in a dream” (Scorsese) ci aveva portati a passeggio nei medioconscio Schnitzleriano senza mai abbandonarsi a spettacolarizzazioni, ma mantenendo quel distacco e quell’obiettività propria di tutto il suo cinema. Crowe cerca invece di investigare l’inconscio Freudiano (programma quantomeno ambizioso), regalandoci una personale interpretazione della Traumdeutung e operando i doverosi aggiustamenti: infatti, rimpiazza il valzer di Shostakovich con una colonna sonora pop sicuramente ricercata ma decisamente troppo invadente, e che soprattutto non svolge alcuna funzione narrativa, ma si limita a sottolineare ciò che il film già esibisce; mescola indistintamente il materiale onirico a quello “reale”, confondendo e intrecciando le due dimensioni – operazione che implica nella sua stessa essenza una visione soggettiva della realtà, e che quindi perde automaticamente ogni valenza assoluta – fino a renderle indistinguibili; chiude il film con il “ritorno alla realtà fisica” (Kracauer) pur cercando l’ambiguità del finale aperto. In sostanza, il film è appesantito dall’eccessiva concessione alla mercificazione dell’immagine dei protagonisti, anche se conserva alcune sequenze di mirabile fattura. Se però l’espediente della criogenizzazione del corpo di David (eredità di tanta letteratura fantascientifica e probabile proiezione del sonno comatoso post-trauma) risulta in qualche modo affascinante senza disambiguare l’intreccio realtà-sogno (e quindi conferendo maggior potere immaginifico alla pellicola), viceversa il suo accorato appello al “supporto tecnologico” (laica versione della divina provvidenza Manzoniana) trascina il film in un momento di stasi narrativa di scuola tipicamente americana. In altre parole, Crowe sente il bisogno di ricapitolare le 2 ore di film appena viste e di fornire una pronta chiave di lettura, con tanto di flash-back esplicativi che invece di ridirezionare lo spettatore sembrano volergli metter sotto gli occhi una inequivocabile spiegazione al tutto. Di fronte alla possibilità di essere male interpretato, Crowe cancella la lezione dell’ambiguità che Hitchcock prima e Kubrick poi avevano tanto faticosamente (ma altrettanto brillantemente) impartito.