Drammatico, MUBI, Recensione, Surreale

UNDINE

Titolo OriginaleUndine
NazioneGermania, Francia
Anno Produzione2020
Durata90'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Undine lavora come storica presso il Märkisches Museum di Berlino: il suo compito è spiegare ai visitatori i plastici che raffigurano la città nei suoi progressivi stadi evolutivi. Undine è appena stata lasciata da Johannes, nonostante lui abbia giurato di amarla per sempre. All’improvviso, però, nel bar del museo compare il sommozzatore Christoph, ed è amore a prima vista.

RECENSIONI

"Perciò è meglio non alzarsi di notte, non scendere lungo il corridoio, non fermarsi e tendere l'orecchio in cortile o in giardino, poiché sarebbe ammettere che più di ogni altra cosa è seducente una nota di dolore, quel suono, quella tentazione, e che lo si desidera, il grande tradimento."
(Ingeborg Bachmann, Ondina se ne va) 

L'ondina è una creatura mitologica, una ninfa, uno spirito acquatico. Indicate da Paracelso come elementali dell'acqua per simmetria con gnomi, silfidi e salamandre, le ondine hanno una storia letteraria precedente e successiva (da Empedocle e Ovidio fino a Maeterlinck e Ingeborg Bachmann) e una migrazione che le ha portate a endemizzarsi nel folklore - negli stagni, nei gorghi - di area germanica. La più celebre, Lorelei, portava a fondo chi passava dall'ansa di Reno più densa di carattere identitario per l'ethnos tedesco. Ondine buone e ondine malvagie popolano la saga dei Nibelunghi. Le ondine infatti hanno tratti comuni con le sirene e le altre creature dell'acqua: uno dei principali è l'ambivalenza e l'essere irresistibili e letali al contempo oppure benevole, possono essere carnefici o vittime. Tutti però più o meno concordano sul fatto che hanno forma e aspetto umano femminile ma difettano dell'anima e che possono ottenerla soltanto congiungendosi con un uomo. Quell'uomo dovrà fare attenzione: in caso di tradimento, è spacciato.

Se le ondine sono da tempo estinte alle nostre latitudini, permangono nell'immaginario collettivo al di là delle alpi al punto da essere traslate in un nome proprio, discretamente diffuso. Sull'ambiguità nome prosaico / creatura fantastica che permette un trapasso continuo dal piano del fenomeno a quello degli archetipi eterni giocano l'ultimo racconto della raccolta Il trentesimo anno di Ingeborg Bachmann, 'Ondina se ne va', e l'ultimo film di Christian Petzold, presentato al Festival di Berlino 2020, Undine. Se Bachmann si identifica con Ondina, creatura silvana vittima di un ordine maschile che si impone e schiaccia attraverso il linguaggio e la struttura sociale borghese, facendone figura autobiografica oltre che biografica della storia della civiltà, la Ondina di Petzold è più sfuggente. Interpretata magistralmente da una prismatica, volubile Paula Beer, premiata con l'Orso, è ora il femminile immensamente passivo, accogliente, disponibile; ora l'eterno feminino che seduce e fa attraversare soglie; ora femme fatale assassina implacabile; ora creatura vacua, senza anima/personalità, che attende di esistere grazie all'amore. Sembra essere quest'ultimo, coerentemente al mito, il registro base.

Come la sua protagonista il film sfugge, refrattario e irriducibile all'interpretazione univoca. Può essere indifferentemente pregio o difetto, a seconda delle sensibilità individuali degli spettatori. Sta di fatto che i molteplici temi e discorsi condotti dalla sceneggiatura si giustappongono in modo suggestivo senza mai ambire a corrispondersi o trovare una soluzione. Trama e dialoghi, inoltre, mantengono una notevole autonomia reciproca. La prima battuta del primo dialogo lancia un tema che si immagina determinante ma si dimostra una falsa pista: il linguaggio. La discussione tra Undine e il neo ex fidanzato Johannes comincia da un fatto linguistico e sembra di scorgere una filiazione dalle preoccupazioni di Bachmann, studiosa di Wittgenstein e della teoria dei giochi linguistici, a proposito dell'ingerenza del linguaggio sulla struttura della realtà, sull'inerzia della lingua come responsabile dell'inerzia delle strutture sociali. Invece finisce lì o quasi. Si continuerà a parlare di strutture sociali attraverso un prisma diverso: l'architettura.
Undine ne è una storica e fa la guida turistica: i suoi discorsi a proposito della genesi peculiare del tessuto urbanistico berlinese punteggiano il film e costituiscono uno dei suoi strati di senso, come abbiamo visto senza un legame covalente fisso con lo sviluppo della lovestory principale. Nella scena centrale, per posizione e densità, Undine e il nuovo amore Christoph sono sul balcone. È notte e davanti a loro la metropoli si stende cemento e neon, senza identità, inorganica e sexy, bluette e opaca. Si respirerebbe un'aria di Kar-Wai, di Tsai Ming-Liang se il tono generale non fosse così cartesiano. Lei racconta dell'Humboldt Forum, il castello di Berlino che fu e sarà. Colossale palazzo barocco inizialmente periferico diventò, completato il viale Unter den Linden, il centro assiale della città espansa verso ovest per ritrovarsi due secoli più tardi nuovamente all'estremo limite del settore est, nella Berlino divisa post-bellica. Gravemente daneggiato dai bombardamenti, non fu ricostruito per motivi ideologici dal governo socialista e al suo posto sorse una grande piazza e un capolavoro modernista, il Palast der Republik. Riunite Germania e Berlino sotto il segno della vittoria occidentale, si decise un gesto politico di restaurazione, specularmente ideologico, che marcasse il territorio riconquistato al libero mercato: il castello sarebbe risorto, fenice e nave di Teseo, com'era e dov'era, come un oggetto assurdo e anacronistico, che nega la dialettica hegeliana non facendosi sintesi ma ritorno artificiale e forzato a una tesi abbandonata nella forma e nella funzione. Undine trae dalla vicenda la stessa conclusione desolata che Bachmann trae dall'analisi del linguaggio: "il progresso è impossibile". Inoltre i numerosi rimandi alla stratificazione urbanistica rimandano non solo alla stratificazione sociale ma anche alla stratificazione del mito delle ondine e alla stratificazione del film stesso. Undine ne parla nella sala dei plastici del Markisches Museum, dove lavora.

Il plastico è un feticcio illuminista, l'illusione di poter miniaturizzare il mondo e abbracciarlo in uno sguardo, controllarlo, dominarlo, guardarlo dall'alto (overlook). Il plastico rimanda inesorabilmente a Shining. Se Jack Torrance rappresenta il principio maschile, patriarcale di dominio sul cosmo che deraglia verso l'antropofagia e il figlicidio, Undine passa la vita tra i plastici senza partecipazione, vi percepisce forse "l'ordine ammantato di crimine" (sempre Bachmann). È una cittadina alienata che ritaglia, in uno spazio monumentale, percorsi sentimentali che la vivificano, dove essere presente con un'anima, secondo il mito. Come sopra, se non fosse per il tono, il registro stilistico, la temperatura potremmo evocare per temi il cinema peri-cinese degli anni '90. L'opposto dell'architettura, per consistenza innanzitutto, è l'acqua. L'architettura determina, definisce, separa. L'acqua non ha forma propria, caratteristiche culturali, è un principio femminile. I laghi, gli stagni da sempre sono gli occhi delle divinità ctonie, la soglia verso una dimensione arcana e primigenia, fuori dal tempo, "l'elemento dove nessuno si prepara un nido, si costruisce un tetto sopra le travi, si rifugia sotto un telone" dice Bachmann. Undine, credendo di aver perso l'amore che la situava nello spaziotempo, lascia la metropoli e vi si stabilisce, riprende il suo posto tra le cose senza nome e storia. Berlino nasce da un ponte sulla Sprea, avamposto della civiltà. Il toponimo significa, secondo alcune interpretazioni, "spazio asciutto in mezzo alla palude": è quindi un luogo di uomini, perfetto per il commercio e i piani regolatori ma inadatto alle ondine. È interessante però notare che il lago che Undine va a presidiare, numinosa come il grande pesce gatto, sia un bacino artificiale e si tratti quindi di una ricolonizzazione, una dialettica, non un ritorno al passato (a differenza dell'Humboldt Forum).

La storia d'amore ittica tra Undine e Christoph può sopravvivere soltanto dentro l'elemento liquido. Nasce con un disastro, con i due travolti dal tracollo di un acquario - un'altra simmetria interna riguarda proprio le cose che si rompono, che possono segnare un sacrificio iniziatico come un presagio funesto - e continua tra il lungo Sprea e la diga. Anche dentro l'appartamento è necessario versare del vino e il gesto maldestro può essere interpretato sia come sacrificio fallito che come presagio nefasto. "Ho sparso un po' di acqua su quei luoghi perché potessero verdeggiare come tombe" scrive Bachmann nel racconto pluricitato. In tutto il film non si dà spazio continuo, al di fuori dell'acqua. Il monolocale atomizzato, le camere d'albergo possono essere nidi d'amore solo in opposizione al mondo esterno. Il senso dello spazio in Undine è dato da soglie che continuano a chiudersi, porte scorrevoli di treni che si chiudono come un elastico teso tra gli amanti e anche gli spazi aperti nelle strade berlinesi si compongono per somma di panoramiche interrotte, in modo cubista. La soglia del mondo acquatico invece è per sempre, una volta attraversata garantisce unità. Non è un caso che le riprese del bacino artificiale siano spesso dei totali a camera fissa oppure dei plongée a filo d'acqua, altrimenti immagini astratte, suggestive e minacciose, della superficie increspata.

Nell'acqua si trovano le cose profonde, che hanno senso. Quindi l'amore e anche la morte, il pericolo. L'omicidio prescritto avviene dentro una piscina dove Undine, come ogni divinità, mostra l'altro suo volto, quello terribile, divoratore e compie la sua vendetta. Cristoph, principio maschile, come Undine muore e risorge ma resta nel mondo, diviso tra la donna sposa con cui dividere il lavoro e la divinità fluviale amante. Nell'acqua incontra morte (apparente) e amore. In una scena che cita alla lettera L'atalante, (curiosamente l'attore Franz Rogowski ricorda anche fisicamente il protagonista del capolavoro di Jean Vigo), egli vede la donna amata con la frontalità e pienezza che sono dell'esperienza mistica, impossibili nel mondo fenomenico dove si frappongono continuamente porte scorrevoli e altri fenomeni concorrenti. L'amore eterno è possibile solo come fantasma, come immagine acquatica, come corpo astrale lontano da una civiltà che gli è ostile. È questa (forse) la conclusione che si può trarre da un film che si ostina a non tornare, che chiama note a margine più che una recensione, che lascia vaste aree di opacità simili a ciò che accade sotto il pelo dell'acqua e che possiamo solo congetturare osservandone la superficie.