Drammatico, Focus, Giallo, MUBI, Recensione, Surreale

UNDER THE SILVER LAKE

Titolo OriginaleUnder the Silver Lake
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2018
Durata139'
Interpreti
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Los Angeles. Sam, un trentenne disoccupato e sotto sfratto, intraprende un’ossessiva indagine attraverso la città: cerca Sarah, una giovane e enigmatica vicina da poco conosciuta, misteriosamente scomparsa.

RECENSIONI

Il grande sonno (della ragione)

Strabordante, labirintico, pynchoniano - e perciò estenuante -, coerentemente (in)concludente, Under The Silver Lake è un noir che ha deciso di non farcela perché si è posto, in piena coscienza, un altro obiettivo: essere un cult, il Donnie Darko diversamente apocalittico dei nostri giorni. Dove l’apocalisse è quella di un reale in progressiva estinzione. Perché nel film di David Robert Mitchell si mette in scena una realtà minata dalle fantasie, paranoie, ossessioni del protagonista. Il grande sonno - tanto per tornare a un noir, sottilmente citato - della ragione. Tutto ci appare dalla prospettiva di questo giovane nullafacente al centro di una cosmogonia improduttiva, plasmata dalle proprie manie, disciolta negli infiniti percorsi di internet. Sam è un ossessivo compulsivo animato da passioni talmente forti e totalizzanti da alterargli la percezione del circostante, un giovane così compreso nelle proprie elucubrazioni da non distinguere il confine tra oggettivo e soggettivo. Il film di Mitchell si muove in questo territorio contaminato, quello in cui esistente e inesistente, verità e fantasia (paura, nevrosi) si mischiano. Termini di paragone? L’ignorato American Ultra di Nima Nourizadeh, per esempio. O Swiss Army Man dei Daniels che, mettendo in scena un’identica distorsione, si propone, al pari di Under The Silver Lake, come film sulla masturbazione, dove quello onanistico non è solo un atto sessuale (che infatti si pratica molto, e su tutto), ma anche un oggetto di discussione, una filosofia di vita, un modo di affrontare il mondo. E una ratio tematica che finisce col nutrire le stesse logiche rappresentative di un’opera che restituisce, come mai prima - in maniera precisa, ricca e problematica - il concetto di adolescenza infinita proprio dei nostri anni (il pigiama che Sam indossa dice tutto a riguardo) [1].
Under The Silver Lake, infine, non si propone soltanto come uno spaccato (tra i più lucidi ed esaustivi visti sul grande schermo) sulla scomparsa della realtà - ormai assorbita in un virtuale che ha inglobato tutto, a cominciare dai rapporti intersoggettivi -, ma è anche un saggio cinematografico semi-definitivo sul complottismo dell'internauta, un’opera che fa dei bias cognitivi e del pregiudizio di conferma - la tendenza a prendere per buono solo ciò che consolida le propria opinione - la sua linea. 

Poplife

L'ambiente in cui vive il protagonista già racconta tutto questo, la casa nella quale costui abita parla di solipsismo e imbarbarimento: Sam - che dorme e si droga sul divano, una mano a un fumetto o a una canna, l'altra al telecomando - recepisce i segnali provenienti dai mondi di finzione con i quali si relaziona. Così, ad esempio, non c'è alcuna differenza tra la Los Angeles nella quale vive e quella del fumetto che sta leggendo: egli galleggia in una dimensione in cui realtà e fantasia si compenetrano, in cui l’una continuamente rinvia all’altra e viceversa (come accade nel comic Under The Silver Lake, anche nella sua città c'è un serial dog killer). Tutto passa attraverso il filtro della pop culture di cui si nutre: il sesso lo fa con la tv accesa, guardando un poster autografato di Kurt Cobain; la vicina scomparsa è una creatura probabilmente immaginaria, vestita come la Lolita di Kubrick. In generale i personaggi che incontra corrispondono a particolari espunti dal suo universo maniacale, dai videogiochi, dalla musica, dalla televisione. Dal fumetto, naturalmente, con sapidi sprazzi meta (Andrew Garfield, che impersona alla perfezione il protagonista, legge The Amazing  Spider Man, del cui film è stato interprete - vedi foto in alto -).

Soprattutto si è inzuppati fino al midollo di cinema hollywoodiano, non solo quello di ogni epoca (i suoi cliché nutrono le circostanze, con tutto un fiorire di figure archetipiche: femme fatale, doppi, bionde&brune), ma anche della sua storia solo scritta (la ragazza in piscina cita non la Marilyn più riconoscibile, ma quella a un passo dalla fine di Something's Got to Give il film di Cukor mai completato, l’ultimo a cui Monroe aveva lavorato). Come sposare un milionario è un altro testo che nutre sottilmente la trama (mentale: le tre ragazze, le bambole, il milionario rapito). Lo stesso voyeurismo denuncia la fervida fantasia del protagonista: guardare le vite degli altri, spiarle, è già immaginarle, completarle con le proprie deduzioni, come ci insegnava il James Stewart di La finestra sul cortile. E Hitchcock è un referente privilegiato: si veda quel girovagare sulle note hermanniane che fa tanto Vertigo (e il secondo grado depalmiano di Omicidio a luci rosse), ma anche la sua rilettura ironico-parodica (il pedinamento in pedalò).
Anche Lynch è ovviamente della partita: la passeggiata iniziale sembra replicare quella di Jeffrey in Velluto Blu; a Mullholland Drive (altro esempio di film losangelino ambientato in buona parte nella realtà deformata dal sogno della sua protagonista) c’è un riferimento preciso, con l’autore del fumetto UTSL interpretato da Patrick Fischler che nel film lynchiano narrava al bar il sogno terrificante. Qui è nei panni di un altro personaggio paranoide e complottista che rivela a Sam (secondo l’hobo code, il codice dei vagabondi), quale è il significato del simbolo rinvenuto sulla parete dell'appartamento della vicina di casa scomparsa: «Stay quiet» (Silencio?). Insomma, ci troviamo di fronte a un testo stratificato, pieno di tracce e riferimenti, che chiede di essere esaminato, riguardato, interpretato.

I Can See Clearly Now

E non meno rilevante è il modo in cui il regista - stabiliti i postulati proiettivo-paranoici del mondo narrativo inscenato -  offra il film come testo da decifrare, rivolgendosi a un pubblico non meno cinefilo e ossessivo del suo protagonista. Fino a ingannare lo spettatore e a condurlo verso piste false almeno quanto lo sono quelle che il protagonista stesso pratica nella vita. Il film è disseminato di figure ambigue e messaggi contraddittori che inducono lo spettatore a supposizioni automatiche, a quel pregiudizio di conferma di cui sopra. E che si rivelano trappole che sollecitano conclusioni errate. Un esempio è quando Sam vede il quartiere invaso solo da belle ragazze e sembra che stia vivendo una  fantasia masturbatoria: scopriremo trattarsi di aspiranti attrici in attesa di un'audizione.
Ma l’apoteosi-capolavoro è il manifesto pubblicitario delle lenti a contatto: supponiamo che quello slogan pregno di implicazioni (
I Can See Clearly Now) sia l’oggetto dell’attenzione di Sam, l’ennesimo segno subliminale che il Nostro ritiene di cogliere nel grande schema delle cose (come i messaggi satanici nelle canzoni pop o una cartina decisiva tratta dalla mappa del tesoro di un gioco per bambini, rinvenuta in una confezione di fiocchi d’avena). Il prosieguo del film, invece, ci rivelerà che ad attirare l’attenzione del protagonista non è stata affatto quella scritta, ma il volto della ragazza. Quella foto è l’unico vero segno reale (vivo, vegeto, parlante, lo scopriremo) che ci conduce a un pezzo sostanzioso di verità, l'unico davvero attinente alla realtà dei fatti. Infatti la visione di quel cartellone risveglia in Sam il ricordo di un’altra fase della sua vita, quella in cui aveva una storia d’amore con la modella in esso ritratta (la reincontra a un party in compagnia del nuovo fidanzato); un passato prossimo in cui - lo presumiamo - non c’era la trascuratezza e l'abbrutimento del presente, in cui non c’erano seghe (mentali e non), in cui si viveva una normale relazione sentimentale, la cui fine immaginiamo all’origine della deriva esistenziale nella quale il giovane si dibatte. Lì la vediamo chiaramente la linea di confine lungo la quale la storia del film si dipana.

[1] Un esempio: il Playboy su cui Sam si è masturbato per anni, reca in copertina la stessa immagine della figlia del miliardario, uccisa nel lago alla fine del film. La sega è diventata mentale.

1 – Attraversando la soglia

Il cinema di David Robert Mitchell è uno sguardo oltre la soglia. Il processo testimoniale del dolore di un passaggio, di un’evoluzione del soggetto schiacciato tra l’attaccamento infantile a un passato edificante e l’incertezza angosciosa che accompagna la creazione di un’esistenza nuova e autodeterminata (non necessariamente legata, quindi, a condizionamenti generazionali e culturali) costituisce lo spirito che muove l’opera del cineasta americano, a cominciare proprio da The Myth of American Sleepover del 2010.
Nel primo lungometraggio di Mitchell, lo spettatore contempla le dinamiche di un desiderio adolescenziale costantemente frustrato, proiettato in avanti eppure claudicante, dove l’esitazione corrisponde spesso a uno sguardo retrospettivo nostalgico: i personaggi del film sono giovani abbandonati a loro stessi (i genitori, come nelle opere successive, sono invisibili o incombono, all’occorrenza, fuori campo), anime disperse nella piana desolata della provincia americana in accordo con un percorso di crescita sospeso tra il rimpianto di ciò che si era e la prospettiva di ciò che si diventerà. Nella sua opera prima, Mitchell insiste costantemente sugli sviluppi di mediazione che intercorrono tra i corpi e, di conseguenza, sull’importanza che rituali e oggetti rivestono nel facilitare l’avvicinamento di un individuo verso l’altro: la dialettica campo lungo/dettaglio (o, più specificamente, il conflitto tra spazio e contatto) diventa quindi il mezzo attraverso il quale dispiegare il meccanismo di esplorazione di un’alterità e di sé, esplorazione resa appunto possibile da stratificate e profonde connessioni con il tessuto culturale d’appartenenza.


Con il successivo It Follows (2015) l’ambiente e la macchina da presa assumono un’importanza profondamente differente rispetto a quanto detto poc’anzi: il lavoro magistrale nell’uso dei totali e nella gestione della profondità di campo (Mitchell e il direttore della fotografia Michael Gioulakis hanno filmato in 2.39:1 senza però utilizzare lenti anamorfiche, preferendo adoperare ottiche sferiche grandangolari per mantenere una visione prospettica più realistica e nitida) aggiunge qualcosa di inedito nel rapporto soggetto/spazio circostante, relazione all’interno della quale la protagonista intraprende un conflitto perenne con luoghi e fantasmi che mostrano ambivalenze e insidie costantemente mutanti, in perenne ri-costituzione. In questo senso, la scelta di contrapporre le panoramiche circolari, in cui il movimento della camera domina sulle azioni dei corpi in scena, alle sequenze realizzate con la macchina a spalla, nelle quali si pone l’accento sul senso di inquietudine esperito della protagonista, pone in essere il confronto tra il terrore di una presenza esterna inconoscibile e una sofferta trasformazione interna.


È proprio questo dialogo continuo tra coscienza e mondo, tra realtà subita e volontà manifestata, a marcare il legame tra It Follows e Under the Silver Lake (2018), connessione che segna in definitiva l’evento che in The Myth of American Sleepover era evidentemente temuto: il tramonto dell’età dell’innocenza.

2 – Immaginazione al Potere

Il trentenne protagonista di Under the Silver Lake, un Andrew Garfield che si muove nel perimetro del territorio hollywoodiano come uno zombie catatonico, incarna l’ideale percorso di immatura e inconsapevole emancipazione di un individuo passato dal grado zero della periferia del Mondo (l’universo parallelo esplorato da Mitchell nei lavori precedenti) al Gotha della cultura di massa americana. La sperequazione impietosa che separa i sogni di gloria giovanili, e le relative estensioni mitiche (il poster di Kurt Cobain, il cinema e i suoi divi, i corpi manipolati dall’immaginario definito da Playboy), da una realtà complessa e stratificata che si fatica a rielaborare, rappresenta per il cineasta americano il terreno di esplorazione elettivo per il proprio discorso filmico, un limbo che si dipana sotto gli occhi dello spettatore come dilatazione di quella soglia evocata all’inizio, spazio labirintico che inghiotte e avviluppa ogni incauto avventore.

Mitchell e Gioulakis riprendono il processo di It Follows adattandolo a un contesto nel quale i particolari e i giochi di segni assumono un ruolo predominante rispetto ai lavori precedenti: l’utilizzo dello zoom e di molte riprese in soggettiva accentuano, infatti, l’identificazione percettiva tra il pubblico e il protagonista Sam, in un gioco paradossale nel quale ciò che è noto e perfettamente riconoscibile (ovvi e ripetuti riferimenti cinematografici e, più in generale, residui di pop culture ormai entrati nell’immaginario collettivo) viene continuamente sottoposto a una ridefinizione interiore/soggettiva che fa assumere al tutto un senso ambivalente e contraddittorio.
Per fare un esempio, il magazine che da il titolo al film, cellula scatenante delle fantasie dietrologiche di Sam, è un campionario di scontate leggende metropolitane elaborate sopra storie di delusioni profonde, rimpianti e fallimenti che continuano ad alimentare il pesante karma losangelino, ambiente segnato tanto dal desiderio di emulazione del modello di riferimento (Hollywood, ovviamente, e più in generale le propaggini edonistiche che da essa muovono) quanto dal profondo disadattamento rispetto allo stesso (Sam non ha un ruolo preciso in questo microcosmo, non paga l’affitto del suo appartamento e si ritrova pignorato della propria auto per mancanza di fondi): l’influenza di questi racconti sul protagonista, condizionamento che si aggiunge ai molteplici segni “scoperti” da esso nel corso delle indagini che lo porteranno a ritrovare la scomparsa Sarah (Riley Keough), è determinante nella descrizione del processo che tiene agganciato Sam a una dimensione inaccettabile eppure eternamente inseguita, realtà al tempo stesso coercitiva e attraente che distoglie il personaggio da un’autentica ricerca di sé.

La scena che vede Sam fronteggiare Il Compositore è in questo senso centrale: quello che il protagonista osserva, in quest’attimo immersivo e delirante, è come la cultura che ha totalizzato desideri e aspirazioni di una generazione sia il risultato dell’indissolubile unione tra mercificazione e liberazione, manipolazione e ribellione, emancipazione e schiavitù. Sam deve uccidere il Mito e ciò che esso rappresenta per essere autenticamente libero, per allontanarsi dai condizionamenti che rischiano di intrappolarlo per sempre in un loop all’interno del quale coesistono il rifiuto del modello e la venerazione di esso (schizofrenia, questa, che confina in una prigione senza ritorno proprio la donna di cui si innamora: “Ora è troppo tardi. Tanto vale fare buon viso a cattivo gioco”, dice lei al termine del film).

Under the Silver Lake è il risultato, in sostanza, di un’ardita e geniale fenomenologia del transito, di una necessaria e dolorosa conclusione del rapporto con un’esistenza precedente (la dipendenza dal modello) a cui segue l’apertura verso un futuro che non si riesce a dominare e a creare attivamente (la separazione dal modello stesso): al termine del viaggio, non sappiamo se l’avventura esperita da Sam sia reale o sognata oppure, meglio ancora, non ci è dato sapere se quest’ultimo stia maturando una reale capacità di liberazione o se, in fondo, tutto il processo da lui vissuto non sia altro che una fantasia post-adolescenziale partorita come elaborazione personale di una delusione inconciliabile verso il mondo e verso la vita. Il finale stesso ci lascia attoniti e incatenati nel piano del purgatorio: archetipi inflazionati e stantii, utilizzati da Mitchell consapevolmente nel corso di tutta la durata del film, con i quali ormai lo spettatore medio ha preso confidenza (Sam fa l’amore con la dirimpettaia hippie di mezz’età: surrogato della madre? Nuova venuta al mondo? Incontro amoroso con una figura libera e slegata da tutto? Ci si può davvero sbizzarrire) si contrappongono a un livello del discorso decisamente meno ovvio (il protagonista è uscito dal proprio appartamento, luogo in cui tutto il percorso delirante è nato e si è sviluppato, e lo osserva dall’esterno, mentre la polizia ha fatto irruzione per eseguire lo sfratto: la “separazione” si è davvero compiuta?) cristallizzando così un procedimento che mette in scena il tentativo (riuscito? Fallimentare?) di affrancamento da un immaginario che ha ormai definito e totalizzato pensieri, concetti e comportamenti.
Osservando il lavoro con il giusto distacco, viene in mente la posizione privilegiata dalla quale Wim Wenders ha potuto criticare la macchina hollywoodiana, denunciandone il meccanismo perverso in un’emblematica battuta di Im Lauf der Zeit (1976): “Gli americani ci hanno colonizzato l’inconscio”.