TRAMA
Normandia, 1819. Al suo rientro in famiglia al termine degli studi in convento, Jeanne sposa un visconte del luogo, Julien de Lamare, il quale ben presto si rivela un uomo gretto e infedele.
RECENSIONI
Lontana dagli affanni della vita vera, rinchiusa in un convento a coltivare sogni, Jeanne ne esce e percorre la sua giovinezza guardandoli appassire, uno dopo l’altro. Prima figlia, poi moglie, madre, vedova, nonna, il suo è un cammino segnato alle origini, dalle sue illusioni di educanda: una volta catapultata nella realtà di tutti i giorni, Jeanne continua a restarne fuori, preda irriducibile di un’idea di felicità, consegnata a una fede incrollabile nell’Uomo che cozza con la scoperta brutale che tutti, compresa l’amatissima madre, vivono mentendo. Da quel momento opera una rimozione: di fronte al crollo delle ultime chimere, si rintana in certezze posticce, le radica patologicamente dentro di sé e prepara il terreno a nuove esistenze infelici (il figlio, la nipote: la rovina si propaga, si trasmette di generazione in generazione). È questa cecità, prima naturale poi autoimposta, a determinare ogni sua sciagura: non vede l’ipocrisia su cui si regge la vita dei genitori (che l’hanno subdolamente indirizzata verso un matrimonio disastroso, oggetto di una valutazione economica attenta, ponderata), non vede il carattere fedifrago del consorte, non vede (e non vuol vedere) in che modo ha educato Paul. E non agisce: totalmente passiva (da ragazza è condotta per mano da madre e padre, poi si assoggetta al marito, poi sarà in balia del figlio e, quando Rosalie le viene in aiuto, finisce col farsi gestire la vita dall’ex cameriera), subisce gli avvenimenti e se ne lascia travolgere.
Quella di Jeanne è un’esistenza qualsiasi, una vita, per l’appunto: banale, non eroica, non avventurosa, una collezione di fallimenti giocata tra i due poli delle aspettative e delle rispettive delusioni. Jeanne, essere fiducioso che non ha creato per sé alcuna difesa, è il fragile centro della storia e l’adattamento di Brizé del capolavoro di Maupassant (il suo primo romanzo che, tra le righe, celava un ritratto della madre) ce la narra secondo un taglio quasi documentaristico, registrando le situazioni quotidiane, non concedendo ai personaggi un approfondimento, ma tendendo a sottolineare i cambiamenti complessivi attraverso l’uso disinvolto ed ellittico della temporalità, lasciando all’intuito e all’immaginazione dello spettatore il colmare i vuoti della narrazione: gli stessi personaggi, spesso, vengono inquadrati di sbieco, non frontalmente, onde evitare letture unilaterali, definitive, favorendo un più ampio spettro di sfumature emotive possibili. L’adattamento di Brizé concede al tempo presente solo la rovina delle illusioni della protagonista (Judith Chemla, di impressionante adesione) e consegna ai flashback i periodi in cui quelle illusioni venivano coltivate (il corteggiamento di Julien, il viaggio di nozze in Corsica, la gioia di accudire il figlio appena nato: i giorni rievocati sono sempre assolati, sereni, senza ombre): Jeanne, come la madre (che ha una cassettina di ricordi - quella in cui conserva anche le lettere dell’amante -) vive nel passato che idealizzava il futuro (fattosi sciagurato presente), affida la sua vita ad alcune memorie-cardine (documentate, per l’appunto, dai flashback) alle quali letteralmente si aggrappa, unico rifugio e sollievo.
In un'ottica di riduzione piana, di distaccata cronaca, di anti-letterarietà Brizé evita il tono elevato di Maupassant, riducendo realisticamente i dialoghi all'osso, scarta le scene madri (così non viene mostrato l'ingresso di Jeanne nella stanza in cui si sta consumando l'adulterio, ma si stacca subito sulla corsa notturna che segue alla scoperta; così non si documenta la modalità della morte del marito e dell'amante: se ne constatano i cadaveri, eccetera) e cristallizza l'esistenza di Jeanne in un unico ambiente: la donna è un insetto in osservazione in una teca che è mondo esteriore e interiore insieme. Il complesso della messa in scena ossequia il principio naturalista a cui si ispira l'adattamento: la macchina da presa sta addosso ai corpi; il suono in presa diretta (si parla della versione originale, naturalmente) restituisce i suoni della natura, gli scricchiolii dei pavimenti, il crepitare del fuoco; non si dà spazio a luci artificiali, rispettando la condizione luministica dell'epoca; coerentemente la colonna sonora prevede il solo uso filologico di una pianola. Una vita non vuole essere, infatti, un film in costume, non nell'accezione classica del termine: la scelta del formato dello schermo - 1.33 : 1 - vuole rifuggire quel modello, evitarne il distacco formalista e favorire, invece, l'intimità dello sguardo, restituire l'idea di una visione ristretta, limitata, parziale (quella della protagonista). E proporre il film secondo un'ottica attuale, come l'istantanea verosimile di un'epoca (che diventa moderna) che si rispecchia nel percorso di una donna che riflette tensioni e temi che sono anche dell'oggi: una concezione di mondo al tramonto, una classe in agonia, una rivoluzione economica; ma anche, più banalmente, la difesa acritica dei figli - che non li mette in condizione di affrontare il mondo e il futuro - che è nodo anch'esso tutto contemporaneo.