
TRAMA
Inghilterra, XVI secolo: il giurista e cancelliere sir Thomas More, pio e probo, rifiuta di avvallare il divorzio dalla moglie di Enrico VIII. Quest’ultimo procede comunque, causando la secessione dalla Chiesa romana.
RECENSIONI
Nato come radiodramma nel 1954, fu trasformato dal suo artefice Robert Bolt (ottimo drammaturgo che vinse un Oscar per la sua sceneggiatura, autore anche degli script di Lawrence d’Arabia e Il Dottor Zivago) prima in un adattamento televisivo (1957), poi in una commedia teatrale nel 1960. La versione di Fred Zinnemann, miglior film e regia per gli Academy Awards, prova in ogni modo a sfruttare il mezzo cinematografico ma non può prescindere dall’origine teatrale se vuole contare sui dialoghi e le prove attoriali: ottimo il saggio e tormentato Thomas More di Paul Scofield, fortemente voluto da Zinnemann anche se privo di nome di richiamo (era protagonista a teatro: vinse l’Oscar), curioso ed energico l’Enrico VIII di Robert Shaw. Il testo conserva pochi echi brechtiani dell’originale (il narratore iniziale), evirando il persistente e ironico controcanto “dell’uomo comune” interpretato da Leo McKern a teatro (qui re-impiegato nei panni di Thomas Cromwell): regala passaggi appassionanti, soprattutto nella dialettica del protagonista martire, uomo per tutte le stagioni nel restare fedele alla propria coscienza ma non è tal punto inappuntabile o entusiasmante da giustificarne, da un lato, il compromesso fra impatto spettacolare e valenze artistiche e, dall’altro, la sua ripetitività con implicazioni teologiche, storiche e politiche per esperti in materia. Oscar anche ai costumi e alla fotografia di Ted Moore, che hanno contribuito a rendere naturalistica una lunga riflessione filosofica.
