Drammatico

UN GIORNO PERFETTO

TRAMA

Emma e Antonio, sposati con due figli, sono separati da un anno: ventiquattro ore decidono del loro destino.

RECENSIONI

Film atipico per Ozpetek: una sceneggiatura di Petraglia, offertagli da Procacci, secondo quello che è un modello produttivo americano che elude le stringenti esigenze autoriali, sempre ostentate dai registi italiani; in questo senso interessante poiché Un giorno perfetto diventa un banco di prova per l'Ozpetek regista che governa una materia che non appartiene al suo mondo consueto e che si trova a plasmare e ad adattare al suo fare cinema; la riduzione del romanzo della Mazzucco, da cui il regista parte, viene rielaborata, alcuni personaggi modificati, altri aggiunti: Ozpetek (citiamo) cerca di "cucirsi addosso la storia". Lo fa con la furbizia che gli riconosciamo da sempre, con il suo girare ricercato e vuoto, con un paio di svolazzi dei suoi (il bel piano sequenza all'interno della casa sui titoli di testa, la scena della violenza nel canneto). Ma i problemi si palesano come quelli di sempre: una scrittura insoddisfacente, zoppicante, personaggi tirati via, affidati a una caratterizzazione scialba che segue i consueti codici da fiction televisiva, la palese volontà di messa a nudo dei nodi essenziali della storia; non decide (non lo fa mai) il Nostro se lasciare tutto allo sguardo (a volte vi si abbandona, e la cosa funzionicchia) o se tentare un approfondimento (lì sono disastri): il risultato è quella frammentarietà tipica di tanto nostro cinema, fatto di momenti più o meno riusciti, con brevi stralci che sembrano più dei piccoli spot che scene utili all'economia di un lungometraggio.
Una discrasia etica ed estetica: è esattamente quella che si manifesta in maniera sempre più chiara nel cinema del regista di Saturno contro. Sicuramente vorrebbe, ma forse non può: lavorare di sottrazione, conferendo al solo scambio di sguardi un potere performativo unico. Oltre il dire, la circolazione di sguardi diegetici dovrebbe "ri-fare" i personaggi nati sulla carta. Da qui, le parentesi "silenziose" presenti nel suo cinema, in cui si dispiega una vera e propria dialettica scopica, un muto dialogo di volti nudi che dovrebbero aver gettato la maschera: ampi movimenti di macchina che accarezzano il volto dell'attore, stringenti campi/controcampi (io ti guardo e ti capisco, io mi faccio capire mediante lo sguardo), passeggiate solitarie. Ma purtroppo, prima c'è il testo, una scrittura sottomessa alla "dittatura" della chiarezza e della verbalizzazione costante e reiterata del sé: i personaggi restano inesorabilmente delle figurine di cartapesta, caratteri incarnanti un tipo (il geloso, l'inquisito, il ribelle, la mantenuta etc.). La topica del riconoscimento delle ragioni dell'altro, che dovrebbe esaurirli "poeticamente", diventa il luogo di un impossibile compromesso tra forme ed etiche dello sguardo inconciliabili: ciò che precede e segue i silenzi che si vorrebbero ipersignificanti, è un coacervo di informazioni che irrigidiscono e fissano, ingabbiano il personaggio, annullando altresì tutto il potenziale "umanizzante" del mutuo riconoscimento di solitudini. Le maschere sature non possono vedere, non vivono. Ozpeteck vorrebbe portare alla vita delle lastre di marmo. Evidentemente, non può. Dunque se lo stile, piaccia o meno, c'è (oltre a quanto detto, le consuete messe in quadro, i personaggi inscatolati negli interni sono oramai caratteristiche riconoscibili) la raffazzonatura è evidente nel tratteggio dei personaggi: i bambini-mostri (solita infanzia improbabile, i cineasti italiani sembrano non aver mai incrociato un bambino), il personaggio di Mara (bentornata Guerritore, però...), presuntuosa figura semisilenziosa che dovrebbe far emergere in controluce la storia, anche interiore, di Emma;  la rappresentazione dei milieu (Roma è uno sfondo lussuoso, giammai un'ambientazione) che nasce da un'idea partorita da letteratura di serie B (la casa dell'onorevole, il confronto tra le classi, la dimostrazione dei ceti che non incrocia la realtà neanche per sbaglio: diciamola tutta, Ozpetek non sa di cosa sta parlando); il doppio filo narrativo (la vicenda dell'onorevole si associa al filone principale) non ha nessuna ragione d'essere, funge da ulteriore livello che tenta invano di disegnare un contesto per contrasto, ma senza rispondere a nessuna esigenza, men che meno narrativa (un flash sull'attualità italiana tanto per aggiungere un tema e ostentare un vacuo impegno? Questo dubbio si fa certezza e, francamente, ci devasta).
Gli attori se la cavano: Isabella Ferrari ha begli sprazzi e ricava il meglio dalla brutta parte; Mastrandrea è un attore ormai maturo e convincente; la Sandrelli, cuore di mamma, è sempre efficace anche se le si mette in bocca il dialogo più becero del film: fosse una battuta, la quaestio della liaison tra il ballerino e il camionista farebbe parte del DNA di un personaggio, una sua opinione, rivelante il suo rapporto con i saperi e le rappresentazioni sociali. Qui, invece, lo stereotipo viene attualizzato in un fatto che suggerisce la posizione dell'autore nei confronti del senso comune: Ozpetek o vede le cose (la relazione omosessuale) come la casalinga di Voghera, oppure la asseconda cercando di strapparle un sorriso sulla base di una identificazione ratificante la doxa.

Manuel Billi & Luca Pacilio

C'è aria di fiction tv nell'ultimo film di Ferzan Ozpetek, il primo per il regista da un'opera letteraria, l'omonimo romanzo di Melania Mazzucco. L'impronta televisiva non è tanto nel profilmico, o nella sempre elegante impaginazione delle immagini, o perlomeno non soprattutto, quanto nella qualità dei sentimenti messi in scena, tutti urlati e privi di reale passione e carnalità. La carne e il sangue soccombono infatti a sequenze in cui prevale la gag, la carineria (i soliti bimbi da spot), la voglia di stupire, senza però osare abbastanza per riuscire a farlo veramente. Tanto che la virata nera colpisce più per il cambio di registro che per le conseguenze emotive dei fatti narrati. Purtroppo non aiuta nemmeno il cast, che comprende gli attori più quotati del momento. Valerio Mastandrea si conferma interprete poco versatile, adatto solo a certi ruoli improntati alla leggerezza, e risulta quanto mai fuori parte. I suoi silenzi e le sue pause restano silenzi e pause e non si ammantano di significato. Molto meglio Isabella Ferrari, anche grazie a un personaggio più strutturato già in fase di scrittura. Gli altri ruoli sono soprattutto di contorno. Monica Guerritore è luminosa e carismatica, ma appare più giudicante che consolatoria. Stefania Sandrelli è confinata nel ruolo più fiction, quello della nonna di carattere, e Nicole Grimaudo pare davvero troppo giovane come moglie di un politico brizzolato. Incomprensibile, poi, il ruolo di Anna Finocchiaro, descritta dal regista come un angelo protettore ma più che altro vagamente menagrama. Poco convincente anche il contesto sociale, che vorrebbe farsi voce trasversale di un ceto medio-basso e di un'alta borghesia. Il massimo dell'approfondimento passa ancora attraverso i commenti sulle "minigonne di quella" (ovviamente popolana) e su una breve parentesi sul precariato che taglia le gambe ai meno giovani. Per tacere poi della stereotipatissima descrizione del mondo politico, tutto teso ai contatti giusti nel momento giusto. Cosa probabilmente vera, ma rappresentata con totale assenza di fantasia e abbondanza di luoghi comuni (le telefonate di Valerio Binasco hanno tempi e contenuto da sit-com). Tra scene madri insistite e insistenti il dramma si consuma nell'indifferenza, e per un film che punta diritto alle emozioni non è certo cosa buona.