TRAMA
Una giovane coppia di studenti lascia il college per trascorrere a Manhattan un piovoso fine settimana, ma il loro legame sarà messo alla prova.
RECENSIONI
E allora? Com’è questo nuovo-vecchio film di Woody Allen? È davvero «meglio del precedente» come il pavloviano riflesso induce ad affermare a ogni uscita («qual è il precedente?» è la domanda che segue, puntuale)?
Riassunto: innamoratissimo del cinema del newyorkese (recuperi televisivi prima e la visione di Zelig poi, in uno scalcinato cineforum liceale - anno scolastico 1983/84 -, che è stato un battesimo da mille punti di vista), ho coltivato con dedizione questa passione film dopo film. Mai mollato, anche quando oramai ogni ardore si era spento, il regista si riproponeva ai miei occhi come il proverbiale peperone: quella che era diventata una magnifica ossessione (frequentare gli appuntamenti settimanali dei cineforum cittadini: almeno due), faceva sì che i suoi lavori li vedessi sempre e comunque sul grande schermo. Per cui nei Novanta era già diventato automatismo a specchio il mio sciorinare parole di delusione sempre uguali, anche quando la critica lanciava in aria fuochi d’artificio (La dea dell’amore, Harry a pezzi). I capitoli dell’opus del nuovo millennio, poi, andavano ben oltre: per il sottoscritto erano l’inaridito rimasticare situazioni, temi, personaggi, meccanismi quasi sempre proposti meglio in precedenza. Certo, non ho mai preteso che Woody Allen facesse un cinema diverso, ché chi se lo dimentica Goffredo Fofi (I love you per molti motivi e nonostante tutto) che scrive su Panorama: «Si vorrebbe che Allen lasciasse un po' perdere il suo ombelico, la sua famiglia, i suoi analisti e la costruzione della periodicità delle uscite, e si guardasse più intorno e si guardasse allo specchio senza i riflessi e le ombre di un narcisismo ormai intollerabile. Woody non ne possiamo più dei problemi di una borghesia ricca, colta e psicanalizzata», sintomo di quella pessima abitudine che molta critica ha di non limitarsi ad analizzare il film che ha visto, ma di discettare sul film che il regista, a suo avviso, dovrebbe o avrebbe dovuto dirigere. Né ho mai contestato il fatto che, guadagnatosi il posto sull’Olimpo dei grandi, tutto oramai facesse sacrosanto brodo, essendo proprio quel costante, imperterrito, ammirevole (per tenacia, lucidità, capacità di amministrarsi) garantire l’appuntamento annuale col suo film il vero capolavoro alleniano. A prescindere, come avrebbe detto Totò. Quanto questa fertilità compulsiva - regolare nella quantità e diseguale nei risultati - sia un dato eccezionale che scandisce il nostro tempo cinematografico (come gli album di Mina quello della musica leggera italiana) ce lo ricorderemo, rimpiangendola, quando non l’avremo più.
Sul dettaglio, invece, pensi la critica quel che vuole, mi dicevo, ne ha ogni diritto, ma mi si lasci il mio di esprimere scetticismo anche di fronte a episodi generalmente acclamati (l’abbaglio Match Point su tutti) e di ridimensionare questi campioni di cinema modulare con la stessa disinvoltura con la quale li si incensa o li si rivaluta a distanza: le strategie - opportunistiche come lo sono spesso quelle alla base del recupero a ogni costo - in tal senso variano; un esempio: (ri)guardare l'ultimo di Allen non come cinema d’autore, ma a tutti gli effetti industriale - e l’intesa con Amazon, fallita poi per i noti avvenimenti su cui non mi soffermo, ne costituiva una solare conferma -, e considerare il regista come puro marchio di fabbrica che propone i suoi prodotti griffati in serie. Plausibile, certo, ma, a parte la prospettiva interessante, che ci dice come e dove collocare le opere, l’argomentazione mi pare un puro magheggio a imbrogliare le carte, ché poi, una volta sistemati questi lavori senili su un nuovo ripiano, è sempre e solo con i singoli titoli e con quel che sono (e non rappresentano) che ci si confronta, no?
E allora? Com’è questo nuovo-vecchio film di Woody Allen?
In Un giorno di pioggia a New York l’americano riapplica (ricicla?) la modalità vacanziera (in ordine sparso, come mi vengono: Londra, Barcellona, Roma, Parigi, Venezia etc - scopri i film a cui mi riferisco -) che gli aveva permesso di esportare un format in affanno in patria e di riproporlo in trasferta (con evidenti ricadute anche negli U.S.A.: Midnight in Paris diventa il suo massimo successo al botteghino e gli fa guadagnare l’ennesimo Oscar).
Stavolta l’escursione riguarda una New York attraversata da uno sguardo idealizzante (e ancora turistico, con tutti gli accessori tipici del caso, a cominciare dalle visite al museo). Ora, sarà che New York è la sua città («e lo sarebbe sempre stata» lacrimuccia in bianco e nero), ma l’esplorazione appare molto più centrata, meno pretestuosa e cartolinesca delle precedenti perché l’itinerario che viene messo in campo ha una sua logica non inchiodata allo scontato mostrare le attrazioni della metropoli, ma che intende aderire innanzitutto all’evoluzione interiore dei personaggi. Questo spiega perché l’esito sia molto più felice di quello dell’episodio gemello (per entrambi l’ispirazione felliniana è palese - Lo sceicco bianco, ça va sans dire -) che si vede in To Rome with Love, film mediamente massacrato, ma che a me sembra del tutto in linea con la produzione alleniana del periodo - per dire di come sia sempre necessario non credere ad altro che ai propri occhi -.
Abbiamo dunque due percorsi paralleli (quello di Gatsby e Asleigh) che conducono a esiti solo apparentemente diversi, perché per entrambi il risultato (il separarsi e andare ciascuno per la sua strada) è l’assecondare la propria natura, abbracciare l’autenticità.
Così Ashleigh, la giovane provinciale di Tucson, probabilmente repubblicana, studente di cinema che si fa ammaliare dalla Celebrity e sedurre dall’idea dello Scoop, si allontana progressivamente da Gatsby, il rampollo bene che viene dalla metropoli e che non ha niente a che fare con quella ragazza, anche se la Famiglia, criticata quanto si vuole, è forte al punto da convincerlo del contrario. Il distanziamento di Asleigh avviene attraverso tre stadi delineati, anche simbolicamente e metacinematograficamente, con molta precisione: il regista (l’attrazione spirituale), lo sceneggiatore (l’attrazione emotiva) e l’attore (l’attrazione fisica, con un amplesso che solo le circostanze avverse evitano). Se al primo stadio la presenza di Gatsby nella sua vita è ancora correttamente segnalata, nell’ultimo, che la porterebbe al tradimento sessuale, diventa un dettaglio trascurabile. La ricongiunzione in albergo allora è solo il prodromo di una rottura niente affatto traumatica (al primo momento di sconcerto, segue il disinvolto tirar dritto in carrozza).
Gatsby da parte sua si riavvicina alla Madre/New York per riconciliarsi con essa. Anche per lui il percorso è una sorta di riconsiderazione esistenziale complessiva attraverso il confronto con il passato: la visita al fratello è una rimeditazione degli assetti familiari; l’incontro con Chan lo conduce a una revisione critica di una storia d’amore segnante, vissuta con la sorella di lei. Ed è speculare al percorso di Asleigh anche il ruolo che il cinema ha su questa linea narrativa: il set, con quel bacio dato in scena e per finta (a dirigere l’azione c’è il giovane cineasta Josh, palese avatar di Woody) che si tramuterà in attrazione reale che indirizza Gatsby alla sua vera vocazione: una vita non pianificata, avventurosa, fuori dalle convenzioni, come quella della genitrice. L’arte, attraverso la finzione e l’artificio, rivela dov’è il vero. Intanto il lavorio interiore che si è determinato nel weekend fatale è reso con un dettaglio che lo riassume: l’incomprensione di un verso di Cole Porter («In the roarin' traffic's boom/ Silence of my lonely room», da Night and Day, che Asleigh attribuisce a Shakespeare [!] e che Chan avrebbe sicuramente colto al volo) convince Gatsby a mollare la ragazza di punto in bianco (la versione italiana, traducendo insensatamente le liriche della canzone invece di restituirle in originale, rende inintelligibile la citazione per chiunque).
E, a tal proposito, mi pare molto riuscita la caratterizzazione di questa gioventù inesistente, che ha modelli, retorica, comportamenti (sottolineati: si pensi al fumare col bocchino) che non appartengono a questo mondo, ma a quello di fantasia costruito da un cineasta ottuagenario, un mondo in cui il protagonista canta al piano uno standard pop degli anni 40 e ha l’improbabile nome di Gatsby Welles a omaggiare due capisaldi della letteratura e del cinema americani che la maggior parte dei ventenni di oggi avrebbe difficoltà a riconoscere. Come completamente fuori dal tempo, del resto, è la stessa idea di New York che viene restituita (fin dal titolo, che evidentemente ammicca al film del 1949 - roba di 70 anni fa, mica 7 - di Stanley Donen e Gene Kelly, Un giorno a New York con i tre marinai in licenza, capitanati da Frank Sinatra, a spasso per la Grande Mela): una vista da lontano di Central Park, le sale museali, il bar del Carlyle, l’orologio Delacorte, luoghi che evidentemente mirano al ritratto di una città immune dalla contemporaneità e - stanti i riferimenti, dichiarati anche nel testo - puramente cinematografica. Un’impressione di irrealtà in celluloide e di mitologia - che la fotografia satura di Vittorio Storaro (lontana dalla patinatura mutevole, perché palesemente didascalica, del precedente La ruota delle meraviglie), contribuisce ad alimentare - che non intacca la precisione paradossalmente veristica del ritratto interiore: la New York di questo film è, evidentemente, un luogo dell’anima e della memoria dell’autore. E le folgoranti battute, che negli ultimi anni sembravano dei lazzi (anche felici) messi tra gigantesche parentesi, chiamate a ravvivare realizzazioni zoppicanti, stavolta sono rare, preferendo, il Nostro, un tono dialogico andante con moto. Certo, poi c’è il mestiere (i gag della risata e del singhiozzo, qualche freddura old style di rinforzo - «la mia migliore amica ti adora come la pillola del giorno dopo» -), ma che non intralciano la fluidità di dialoghi ispirati, sorretti da una meccanica narrativa oliata che regge con disinvoltura il proliferare delle piste e dei personaggi, il voice over di stampo romanzesco e la gravità improvvisa (il dialogo rivelatorio con la madre, una svolta fin troppo esplicita, tanto da forzare un po' la costruzione).
Tutti ingredienti testatissimi, da kit alleniano - sia chiaro che di opera minore si parla -, ma miscelati con una grazia che latitava da un po’ nella pletorica filmografia del Nostro.
Riguardo agli interpreti, a leggersi le interviste del cineasta americano pare che lui gli attori non li diriga, che dia due indicazioni di massima e poi li lasci fare. Non so se prestare fede a queste dichiarazioni posto che, se c’è un aspetto in cui il cinema di Allen non ha mai perso un’oncia del suo smalto, è proprio quello della recitazione (lo attestano anche tutti i riconoscimenti ottenuti in questi anni dalle sue attrici - Wiest, Sorvino, Cruz, Blanchett, tutte oscarizzate -). Un giorno di pioggia a New York non fa eccezione: il cast è superbo, e non mi riferisco tanto a Timothée Chalamet, ma soprattutto alla migliore Elle Fanning vista finora (strepitosi tempi comici) e a Selena Gomez, autentica rivelazione del film.