TRAMA
Barry Egan, oppresso dalla famiglia, impiegatuccio senza prospettive, vede sconvolta la sua esistenza a seguito di una telefonata ad una hot line e all’incontro con Lena, una ragazza innamorata di lui.
RECENSIONI
Ma come cavolo muove la macchina da presa P.T. Anderson! Prendiamo l'inizio: un'atmosfera sospesa, indefinita, quasi kafkiana, rotta a tratti da panici fulminei, è restituita attraverso uno sguardo agli ambienti, lente carrellate, focalizzazioni di oggetti e volti, strie di luce che tagliano lo schermo. La strepitosa scena della telefonata erotica (sarà questa alla base dell'assurdo divieto ai minori di 14 anni appioppato al film?) con movimenti sghembi, che incrociano il protagonista e scrutano lo spazio, inquadrando il primo nel secondo, la mdp mostra un appartamento asettico e nudo che dice di un'esistenza altrettanto vuota e schematica. E quale misura ha trovato il registasceneggiatore nel girare questo strano, stranissimo film che è Ubriaco d'amore, piuttosto lontano dai ritratti coralialtmaniani di Boogie nights e Magnolia, film generosi quanto sbilanciati, ampiamente imperfetti (soprattutto il secondo), e più vicino al minimalismo del suo primo lungometraggio Sidney. Ma è il registro che Anderson sceglie a sorprendere: brillante e demenziale, tenero e amaro, piuttosto sganciato dai cliché ai quali comunque si ispira: quelli della commedia romantica e del musical sentimentale qui resi in maniera atipica e surreale, non estranea a certi umori coeniani. Anderson si muove fra gli sparsi percorsi di una trama quasi pretestuosa, che finirà classicamente nella raggiunta felicità amorosa, curando moltissimo la composizione visiva: interrompe il flusso degli eventi con i raffinati cromatismi degli astratti inserti animati, insiste sui colori traendone ricercate alchimie che fendono i lividi blu dominanti, gioca con figure e oggetti e le loro messe a fuoco, con luci e silhouette. Il ritratto per eccessi di questo (un)ordinary man - vittima di un mostro a sette teste (la sua famiglia) che avvinghia, stritola e dispensa fobie - che porta avanti una vita anonima e ai margini è, pur nei toni brillanti, la fotografia paradossale e inquietante di una nevrosi e di un malessere, di un'angoscia sotterranea e strisciante resa in termini figurativi (le strade deserte della città al mattino, nel bellissimo inizio; un harmonium che sbuca dal nulla - molto coeniano - e che preannuncia una dolce novità che dissiperà il grigiore; un gessato blu e una cravatta gialla; la corsa da incubo tra i pianerottoli del condominio in cui abita Lena etc.) e attraverso notazioni veloci quanto pregnanti, per le quali qualsiasi approfondimento suonerebbe pesante e pleonastico. Molto ben interpretato da Adam Sandler (perfetto per il ruolo, antipatico come pochi) e da una deliziosa Emily Watson, con un uso funzionale di musiche soprattutto percussive, Ubriaco d'amore è un film a colori che non ti aspetti, difficile da catalogare, di moda senza scivoloni modaioli, intelligente fino all'incoscienza: una prova di coraggio che attesta la raggiunta maturità di P.T. Anderson; il suo miglior risultato a tutt'oggi.
Nel nuovo film di Paul Thomas Anderson c'e' una sequenza molto bella, ispiratrice anche del poster italiano: lui e lei, dopo varie peripezie, si incontrano finalmente alle Hawaii; la piu' classica delle situazioni cinematografiche viene risolta facendo muovere le silouette dei protagonisti, immersi in un caotico viavai di persone anch'esse in controluce, sullo sfondo colorato e gioioso di una spiaggia. Un perfetto risultato visivo, curato con perizia tecnica fin nei minimi dettagli dal giovane regista americano, che dopo due film impegnati e lunghi ("Boogie Nights" e "Magnolia"), ha dichiarato di essersi lasciato andare a una "semplice" commedia dal piu' ridotto minutaggio. Tanto indubbio talento, pero', rischia di soffocare il film. L'inizio e' spiazzante e lascia ben sperare, poi la voglia di stupire prende il sopravvento e si accompagna, con inevitabile stridore, a una narrazione prevedibile e un po' ruffiana. La regia, da originale e innovativa, diventa quindi invadente e mai lieve, come nelle dichiarate intenzioni. In particolare si sente la mancanza di un taglio deciso da imprimere al racconto, sempre incerto tra convenzione e liberta' creativa. E' vero, puo' essere bello lasciarsi andare all'irrazionalita' di un cinema privo di tesi da esporre e lucidamente folle, avvolgente e sconvolgente al tempo stesso. Ma "Ubriaco d'amore" (terribile il titolo italiano!) resta imbrigliato in una irrisolta via di mezzo. Non giova alla narrazione nemmeno la sottotrama pseudo thriller, con una telefonata a una "hot-line" (dopo "Girl 6" e "America oggi" c'e' ancora qualcosa da aggiungere?) che diventa un incubo interminabile (non solo per il protagonista). Piu' che altro un tentativo di rimpolpare in qualche modo l'esile soggetto, scelta che si rivela subito ridondante e dagli esiti prevedibili, con Philip Seymour Hoffman in veste di improbabile "cattivone". Molto efficace, invece, lo scheletro sonoro del film (a parte una scopiazzatura, chissa', forse voluta, del tema di Nino Rota per "Amarcord"), con un tappeto di percussioni che riesce a far entrare lo spettatore, con tensione crescente, nel grottesco universo descritto. Adam Sandler, divo in America e volto tra i tanti da noi, e' l'interprete ideale e incarna con credibilita' un uomo scisso tra il bisogno di esprimersi e la prigione dell'ambiente familiare, con sette terribili sorelle impiccione e castranti. Emily Watson e' a suo agio e illumina il suo personaggio, tanto grazioso quanto inconsistente. Si sente il tentativo di svecchiare la piu' classica storia d'amore con uno stile alternativo, ma cio' che resta del film sono guizzi di tecnica. Non e' poco, perche' il film e' interessante e, in certe soluzioni adottate dal regista, esteticamente bello e coraggioso, ma non e' abbastanza per renderlo un prodotto in grado di sedersi sul sofa' della memoria.
Paul Thomas Anderson è tra i giovani registi americani emergenti (Wes Anderson, Alexander Payne) colui che ha esercitato la maggiore influenza (Rose Troche, Muccino), forse il solo in grado di unire il cinema mainstream hollywoodiano con il cinema d’autore. Unico vero erede di Altman, specializzato nei grandi affreschi corali (Boogie Nights, Magnolia), con Ubriaco d’amore abbandona gli “ensembled-led movie” per una “romantic-commedy” pensata e costruita attorno ad un unico protagonista, dai toni grotteschi e dall’impianto narrativo notevolmente più esile rispetto ai suoi precedenti capolavori, in cui ancora una volta è la maestria tecnica a farla da padrona. C’è, infatti, un aspetto che non si può discutere di Paul Thomas Anderson, ed è l’enorme talento; un talento capace di firmare capolavori di equilibrio tra abilità registica e complessità di scrittura (Boogie Nights), capolavori di tecnica in grado di imporre nuove formule narrative (Magnolia), anche se tutta questa multiformità (di tecnica e di scrittura) a volte finisce per avere il sopravvento sull’autore, rendendolo incapace di recuperare nel finale tutti gli sviluppi del suo discorso (Sydney). Nella carriera di Anderson, Ubriaco d’amore rappresenta indubbiamente un “lighter movie” (oltre che una mezza delusione), che si discosta dai precedenti lavori per genere, una commedia, per impianto narrativo, in due parti contrapposte, per focalizzazione, un unico protagonista, ma soprattutto per toni, surreali. L’aspetto che balza subito agli occhi vedendo l’ultimo film di Anderson è la semplicità della storia. Lo spunto narrativo deriva, infatti, da un curioso fatto di cronaca pubblicato sul Time (e in questo Anderson conferma la sua predilezione per i casi eccentrici della vita), mentre l’intera storia è stata scritta e pensata attorno ad un’unica componente, il suo protagonista: Adam Sandler, a cui il giovane regista di Studio City ha confessato il suo apprezzamento (“I loved it when he did that in his movies...”), e di cui ha riproposto la collaudata maschera di personaggio goffo in preda ad improvvisi scoppi d’ira (“... and I wanted him to do that in mine”), che tanto lo ha reso famoso in patria (negli Stati Uniti è l’equivalente del nostro Fiorello). Ma a parte questo nella trama del film c’è ben poco, e la storia appare poco convincente, non tanto per l’esile spunto o la mancanza di originalità, e neppure per la struttura narrativa che si appiattisce comodamente su una bipartizione che prevede un inizio tragico e deprimente, e una seconda parte con l’improbabile capovolgimento e rivincita del protagonista, quanto soprattutto per la difficile convivenza di un tema drammatico, quello del riscatto dell’uomo oppresso dal mondo contemporaneo, altrove già trattato in modo meno convenzionale (A proposito di Schmidt), e decisamente originale (Spider), con una presa comica che non è né così sincera (Buster Keaton), né così grottesca (Blake Edwards) da risolvere in suo favore il difficile connubio. Rimane una storia irrisolta e pericolosamente in bilico tra superficialità (il tema è attuale) e mistificazione (l’amore di una donna come scialuppa di salvataggio), che non ha la capacità di penetrazione delle precedenti ricognizioni (anche grottesche) dell’autore sulla complessità degli esseri umani, né la generosa volontà di completezza (Sandler non riesce a creare un vero personaggio). Ma Ubriaco d’amore è soprattutto un film di un’impressionante bravura tecnica, premiata a Cannes nel 2002 (ex-equo con Im Kwon-Taek), che però mette in luce anche tutti i difetti di Anderson, più di quanto fossero riuscite a mostrare le sue precedenti prove. La tecnica di Anderson è basata sulla completa subordinazione della storia e dei personaggi alla funzione espressiva della macchina da presa. E se nei film precedenti era riuscito a contenere questo disequilibrio sotto la soglia di un pericoloso manierismo, grazie alla grande complessità della scrittura, dimostrandosi capace di saper raccontare una storia e uno spaccato sociale, oltre che di saperli mostrare attraverso il gioco delle angolazioni e dei movimenti della macchina da presa (in cui rimane forse il più grande regista attuale insieme a Tsui Hark), in Ubriaco d’amore, Anderson sembra prendersi una pausa, e ridurre la complessità formale del suo cinema alla vocazione espressionista della regia e all’empatica monodia dei codici. Ma quando la regia e la colonna sonora arrivano a sostituire la sostanza della storia e della recitazione, si rischia di finire in un pericoloso compiacimento tecnico. Siamo ormai in grado di ascrivere Anderson tra gli attuali fautori di un certo cinema manierista (Todd Haynes, Cronenberg, De Palma) che ultimamente sta prendendo il sopravvento come cifra stilistica distintiva degli autori, e soprattutto si dimostra incapace, da una parte, di mostrare una sincera presa di coscienza sulla tematiche che esprime, e dall’altra, di ritrovare un’autentica vocazione al di sotto della bella forma esteriore. Non più stile ma esteriore “cinema styling”. A tal punto che il premio alla regia di Cannes dell’anno passato suona tanto di retroattivo.
Nelle (auto)riflettenti solitudini di un magazzino deserto e di un appartamento vuoto, Barry progetta un piano folle e ingegnoso che deve rimanere avvolto nel silenzio. Un doppio incontro, non del tutto fortuito (con uno strumento della Bellezza e con la Sua incarnazione), induce il giovane a trasformare la sterile ragnatela di menzogne estorte e minacce di estorsione che costituisce il tessuto della sua vita in una trama di amore “suonato”, intrepido fino all’incoscienza o alla piena coscienza. Il nuovo film di P. T. Anderson è un’opera che allude con sorridente sagacia ai meccanismi cinematografici che la governano: se il puntiglioso e nevrotico scrupolo con cui Barry organizza ogni dettaglio della propria giornata (telefonata erotica compresa) si associa a uno sguardo timido e indagatore, il regista prepara con millimetrica attenzione la successione delle inquadrature e ne sceglie con deliziosa perizia le linee e i colori, senza affogare nella maniera un estro visivo che fonde farsa e dramma nella propria liquida follia. Il film è la messinscena di un’amorosa rivolta che diviene rivoluzione esistenziale: UBRIACO D’AMORE sembra inebriarsi, un fotogramma dopo l’altro, delle atmosfere surreali e disperate che cesella. La luce livida di un’alba periferica si scalda a un sole hawaiano appena tramontato, la tragedia di un impiegato modello si carica di cromatismi acidi e dannatamente vitali, al raggelante brivido di una voce notturna si sostituisce un bacio che, nel silenzio di una nuova alba, conclude il prologo di una traccia amorosa pronta a spiccare il volo (in direzione del pubblico?). Il cinema è finzione (“Sembra di stare alle Hawaii”), la bellezza che è fonte e risultato di simili immagini è magnificamente reale. Il valore dell’opera non è guastato dal consapevole gioco degli stereotipi, anzi: i tasti ribattuti dell’armonium (della sceneggiatura) costruiscono un tappeto sonoro di perturbante eleganza, una sequenza ininterrotta di onde audiovisive, dolci e ossessive come (in)frangibili tubi di cristallo. Una miniatura (per gli standard del regista) che, al solito, ricerca e trova un’essenzialità densa di annotazioni imprevedibili, sfumature irresistibili, invenzioni elettriche su un tema che la più sfrenata astrazione conduce a una purezza sbalorditiva. Un gioiello con un solo difetto: una brevità lancinante.