TRAMA
La storia immaginaria di Willie Stark: da strenuo sostenitore dei diritti civili a governatore della Louisiana, sospettato di corruzione e altre nefandezze.
RECENSIONI
L’uomo è un animale che si vende: questo, per cenni, l’assunto di All the King’s Men di Robert Rossen (1949), riproposto oggi da Steven Zaillian (A Civil Action). La seconda volta serve diligentemente il dettato di partenza, fa rumore con timidezza e riempie di sassolini il suo carniere: l’inizio impacciato e macchinoso, la rimestante voice off, il sospetto del piatto (e finto) biopic, la cinepresa fissa sull’esagitato Sean Pean sembrano chiudere subito e male la partita. Ma, nei fluviali 125’ adibiti allo scopo, il film decide di divagare; tralascia più volte il genere retorico/politico – a perenne rischio ridicolo, non tutti sono Loach o Leigh – prende la via laterale, intreccia pubblico e privato (l’antica passione Jack/Anne) e sbriciola l’intreccio nel melò, tirando all’estremo le conseguenze dell’amore. Pamphlet sullo stupro della cosa pubblica, filippica incazzata contro la cattiva politica ma anche magniloquente ricognizione interiore, abbellita da candidi archetipi (il reporter spericolato, il figlio d’arte complessato, il custode della legge; l’istrionico Jude Law, il sofferto Ruffalo, il solito luminoso Hopkins), è un’opera sbilenca e diseguale, non azzeccata ma mai sbagliata, stimolante perché disomogenea, così orgogliosamente fuori corda da sfoderare risorse sempre nuove (il putiferio conclusivo). Penn, una marionetta di carne, fa ingoiare la macchietta del patetico antidivo, dato che il puntuale taglio ampolloso (verbale e visivo) aderisce dannatamente allo script. Concerto di demerito (sarebbe poco, solo una nota) per il nostro doppiaggio, che tratta la varietà contadina dell’entroterra con un amaro cocktail di dialetti che neanche l’agro pontino.