TRAMA
Una narratologa inglese, a Istanbul per una conferenza, compra una boccetta da cui esce un genio che le racconta le sue vicissitudini, esortandola a esprimere tre desideri. Ma lei non ne ha: vive per il proprio lavoro, sta bene da sola.
RECENSIONI
Dopo il neozelandese Peter Jackson, anche l’australiano George Miller si cimenta con opere che utilizzano riflessivamente gli effetti speciali. Non solo, quindi, film “con” effetti speciali, ma veri e propri “discorsi su” gli effetti speciali – e per estensione anche discorsi sulla tecnica, ineludibile destino filosofico dell’Occidente. Il fascino di questi film, come del resto dello stesso ultimo Mad Max, è quello di arrivare fuori tempo massimo: gli Spielberg e soprattutto gli Zemeckis del caso se ne sono già occupati per decenni, ma proprio il carattere démodé di queste operazioni “oceaniche” (nel senso dell’Oceania) garantisce loro una certa libertà e un certo fascino.
Miller prende un importante pilastro della narrativa postmoderna come Antonia S. Byatt (Il genio nell’occhio d’usignolo), e fa in modo di renderlo consumabile per le masse, a forza di felici linearizzazioni e semplificazioni. Un dialogo faccia a faccia con lo spettatore (del resto, lui stesso giocoforza sempre più sofisticato), condotto con la stessa elementare franchezza con cui la narratologa protagonista, in una camera d’albergo di Istanbul, dialoga con il genio della lampada che ha accidentalmente risvegliato.
“Hai a disposizione tre desideri che posso avverare”; “Non ho desideri; in compenso so che da che mondo e mondo le storie coi geni della lampada sono storie di ammonimento quindi… dov’è il trucco?”. Questo, grossomodo, il tenore del loro primo incontro. Raccontandole come è finito nella lampada a svariate riprese nel corso di millenni, il genio riesce a conquistare la diffidenza dell’interlocutrice – che è innanzitutto diffidenza verso il proprio stesso desiderio. Parallelamente alla voce del genio, le immagini ne visualizzano le storie grazie a un robusto impiego di effetti speciali il cui fine è diverso dalla semplice meraviglia spettacolare, e più vicino semmai a una prova vivente della forza dell’affabulazione in quanto tale, capace di macinare qualunque sofisticazione intellettuale e soprattutto di scavalcare persino la disillusione cinica che consegue alla padronanza dei meccanismi del narrare, e delle implicazioni delle mitologie. Liberarsi dalla disillusione cinica che inevitabilmente la troppa conoscenza porta con sé: preoccupazione postmoderna quant’altre mai.
Come il genio, per potersi riattivare, fa l’archeologia di se stesso, Miller, come già nell’ultimo Mad Max, fa l’archeologia del postmoderno. E ci ricorda non tanto che siamo ancora lì, nell’orizzonte storico che è stato il postmoderno a tracciare, ma piuttosto che nel frattempo il postmoderno si è consolidato confutandosi, ovvero diventando esso stesso un mito e dunque abbandonando la pretesa di essere il tramonto di tutti i miti. Come tutti i miti, anche il postmoderno ci mette davanti a una contraddizione che fonda la nostra condizione, e ne simula una risoluzione. La nostra condizione è quella di essere arrivati alla fine della parabola della modernità, e dunque di avere esaudito il nostro desiderio prometeico di conoscenza e di autodeterminazione. Il desiderio, per poter esistere, ha bisogno di un fantasma immaginario in cui credere; avverato il desiderio dei desideri (la conoscenza) e raggiunta così la conoscenza del desiderio stesso, ogni fantasma immaginario cade sotto il peso che la disillusione porta con sé. La condizione postmoderna è (era?) dunque quella in cui il fantasma immaginario è al contempo necessario e impossibile; non possiamo stare né con lui né senza di lui. Lungi dallo sciogliere tutte le contraddizioni, l’avveramento del desiderio dei desideri ne ha solo prodotto una nuova: rieccoci dunque, vertiginosamente, all’interno dell’orizzonte del mito (dunque del fantasma, dunque del desiderio).
Con mezzi se vogliano più sempliciotti di quelli degli Spielberg e dei Zemeckis, ovvero con un racconto papale papale, tradizionale ma frammentato e oscillante continuamente di qua e di là, 3000 Years of Longing ci palesa il nuovo mito fondativo della nostra civiltà, che è quello del non poter stare né dentro né fuori dal mito. Credevamo di avere chiuso il vaso di Pandora scoperchiato dalla regina di Saba quando, ci rivela il genio con una versione alternativa della storia, ha rimpiazzato l’autosoddisfazione masturbatoria del desiderio con l’estrinsecazione di un fantasma immaginario prima perfettamente interiorizzato (un’estrinsecazione che ha il nome, decisivo, di “tecnica”). E invece, da lei a noi non abbiamo avuto che un’interminabile serie di anagrammi e di riconfigurazioni di questo medesimo big bang, una serie in cui dobbiamo includere, riconoscendoli come emanazione dell’origine secondo la più la classica delle logiche mitologiche, persino il prometeico avvento della modernità nonché, e non da ultimo, noi stessi.