Commedia, Drammatico, Recensione

TRE VOLTI

Titolo OriginaleSe rock
NazioneIran
Anno Produzione2018
Durata100'
Fotografia

TRAMA

La famosa attrice Behnaz Jafari riceve il video di una giovane che implora il suo aiuto per sfuggire alla propria famiglia conservatrice e tiranna. Bahnaz abbandona le riprese del film a cui sta lavorando e si rivolge al regista Jafar Panahi per risolvere il mistero del video e raggiunge la ragazza. Inizia così un viaggio in auto verso il nordovest rurale dell’Iran.

RECENSIONI

Jafar Panahi è una figura di riferimento del cinema iraniano, non solo per le vicende censorie e giudiziarie che lo hanno visto triste protagonista negli ultimi anni. Panahi è un nome centrale della sua generazione perché, fin dagli esordi nel lungometraggio di finzione a metà degli anni Novanta, ha saputo reinterpretare in maniera narrativamente acuta e formalmente audace i particolarismi della realtà iraniana, dando testimonianza di come il cinema possa ancora farsi scottante arma di analisi critica, scansando derive esotizzanti, senza appiattirsi sulla facile indignazione dei contenuti, stimolando un’indagine che a partire dal dispositivo formale sappia esaminare trasversalmente uno spettro più ampio di istanze: le fratture dell’Iran post-rivoluzionario, la questione femminile, la vita ai margini delle città, il ruolo dell’artista in un regime oppressivo. Quello di Panahi è (stato) un cinema post-kiarostamiano che, pur tentato dal gusto della metafora, presenta una novità, spostando lo sguardo dagli spazi allegorici della campagna al tumulto dei contesti urbani, facendone emergere i tipi umani, la violenza sociale e le iniquità soffocanti. Nascono in questo quadro l’epopea ad altezza di bambina de Il palloncino bianco (1995), lo strabiliante strappo meta-cinematografico de Lo specchio (1997), il labirinto in piani sequenza del Leone d’Oro Il cerchio (2000), il romanzo criminale Oro rosso (2003), il cuore indomito delle tifose di Offside (2006). A seguito della condanna subita nel 2010 (sei anni di reclusione e la supposta impossibilità di produrre film per altri venti), Panahi fa ricorso a tutta la sua duttilità espressiva, alla conoscenza intima del limite scivoloso fra documentario e finzione, e ripensa il suo cinema dalle fondamenta, tramutandolo in un inevitabile documento su se stesso, un diario dapprima autobiografico (This Is Not a Film), poi fantasmatico (Closed Curtain) fino all’auto-fiction (Taxi Teheran). È attraverso sé – e, ancora una volta, attraverso le sue soluzioni formali – che la sua opera si pone come una radiografia implacabile sullo stato di potere in Iran.

Questo preambolo è forse utile per inquadrare il senso di insoddisfazione che lascia la visione dell’ultimo Tre volti, un film che confonde semplicità con fragilità, che rimodula lo schema episodico di Taxi Teheran (che già si rifaceva alla lunga tradizione dei “film in auto” del cinema iraniano, da Dieci in poi) finendo per sedersi su se stesso e (soprattutto) sul cinema degli altri – o meglio, dell’Altro. Lasciando la città per avventurarsi nell’impervia campagna persiana, uscendo quindi dal suo habitat cinematografico d’elezione, Panahi sembra perdere le coordinate d’originalità del suo cinema. Il fulcro concettuale rimane lo stesso – la condizione dell’artista, la posizione sociale delle donne, l’ibridazione documentaria e l’auto-fiction – ma l’impressione è che questi temi ricorrenti vengano appoggiati su quadri visivi presi in prestito, su immagini che non gli appartengono appieno e che quindi finiscono per assolvere una funzione poco più che decorativa. È il fantasma di Abbas Kiarostami a fungere da incredibile convitato di pietra. Fuori dalle strade della metropoli o dalle stanze soffocanti del suo appartamento, in aperta campagna Panahi sembra riproporre in maniera didascalica l’intero catalogo kiarostamiano senza riuscire veramente a penetrarlo, allineando una serie di quadri che, più che omaggi, hanno la forma del calco di intuizioni già avute, di simulacri poetici svuotati della grandezza filosofica dell’originale. Fin dalla premessa si rincorre l’eco del Maestro: l’affannosa ricerca in luoghi alieni di una ragazzina (Dov’è la casa del mio amico? ma anche E la vita continua) la cui aspirazione di diventare attrice, il cui sogno di cinema, confonde i piani di realtà (Close  Up). Lungo ripide strade montane, lungo curve a zig zag (l’icona più classica, in rigoroso campo lungo o lunghissimo, di tutto il cinema di Kiarostami), Panahi e la sua compagna di viaggio, l’attrice Behnaz Jafari (in un gioco di auto-rappresentazioni a scatola cinese, Sotto gli ulivi), si imbattono in personaggi più o meno singolari, che recitano leggiadre sentenze sulla vita (“Il bello della vita è che noi siamo vivi” dice uno dei personaggi, echeggiando in positivo il celebre monologo da Il gusto della ciliegia: “Queste quattro stagioni, le guardi mai? Ogni stagione dà un frutto diverso. Vuoi rinunciare al sapore della ciliegia?”). Non mancano certo momenti di grande forza visiva: in campo lungo, la casa di un’anziana attrice che, mentre si fa sempre più notte, nel buio viene illuminata da un fascio di luna, mentre una voce recita una poesia (un impianto visivo molto simile, un fascio di luce che squarcia il buio, e una poesia recitata nel contempo, lo troviamo nella scena della stalla in Il vento ci porterà via). Per concludere quindi con il finale, di per sé bellissimo, ideale trionfo kiarostamiano: il campo lungo su una strada tortuosa, un’auto bloccata e due personaggi che si allontanano nella distanza, la speranza, la vita che continua. Ma se il paesaggio kiarostamiano era in primis un luogo cinematografico esistenziale, che attraverso l’allegoria si faceva documento filosofico, sembra non riuscire a Panahi il tentativo di iniezione di tematiche più spiccatamente sociali e politiche all’interno di un impianto visivo dalla portata allegorica già così definita.
Il paradosso – e il limite – di Tre volti è essere al contempo il film che ti aspetti e quello non ti saresti aspettato: da un lato, la riproposizione un po’ stanca di una certa maniera di temi e pose del cinema di Jafar Panahi; dall’altro, un innecessario passo indietro di vent’anni nei modi e nelle modalità del cinema iraniano.