Fantascienza, Sala

TRANSCENDENCE

NazioneU.S.A. / Gran Bretagna
Anno Produzione2014
Durata119'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Il Dottor Will Caster, esperto di intelligenza artificiale, costruisce una macchina capace di simulare la coscienza umana. Assassinato da un gruppo di terroristi, continuerà a vivere grazie alla moglie Evelyn che farà un upload del suo cervello dentro un computer. La volontà di potenza del nuovo Will virtuale diventerà ben presto incontrollabile, arrivando a dominare tutto il sistema di rete del pianeta.

RECENSIONI

Già dalla prima apparizione Will Caster riveste il suo nido d'amore con una rete di rame, un chiaro rimando a quella più estesa, cybermisticheggiante, che cercherà di controllare l'intero pianeta. Perché l'utopica tecnocrazia del progetto PINN, in realtà, è semplicemente un'stensione del rapporto tra lo scienziato e sua moglie Evelyn, quell'afflato d'umanesimo che giustificherebbe, in virtù del sentimento, la riprogrammazione stessa dell'esistenza. Un'esistenza che però, nel suo perfezionamento, nasconde l'esigenza primaria di Will, ovvero l'isolamento dalle influenze esterne (le radiazioni elettromagnetiche) con un piano di dominio dove anche una singola goccia può diventare la rappresentazione, fondante, dell'unità della coppia. Trascendendo.
A un'idea di partenza tanto interessante quanto ambiziosa, segue purtroppo uno script a dir poco imbarazzante, retorico fino all'estremo nello sbandierare i temi fondanti con un fare filosofeggiante che, nel giro di soli 10 minuti, è in grado di inanellare uno dietro l'altro tutti gli eventuali spunti affrontati. L'esagerata semplificazione appare ancor più difettata dall'eccessivo spazio dato al sentimentalismo che se da una parte vuole dare un'anima specifica al genere dall'altra ne impedisce ogni concreto sviluppo. Trascendence di sicuro svia dal clamore dell'effetto speciale e cerca di concentrare nelle relazioni tra i suoi personaggi la vicenda, secondo un uso dei corpi che, con un po' di forzatura, potrebbe ricordare la conflittualità essere/apparire di Andrew Niccol. Ma qui siamo da tutt'altra parte e l'opera prima di Pfister, direttore della fotografia di Nolan, vaga senza una vera e propria messa a fuoco, pasticcia con i capisaldi (da The Body Snatchers a Carpenter), cambia improvvisamente ritmo (dai toni meditativi della rinascita di Will all'assurda accelerata action del finale), stacca così bruscamente situazione da evidenziare ulteriormente i palesi limiti di sceneggiatura.La rete, virtuale e fisica, rimane un abbozzo sempre al limite della sentenza olistica, l'unico abbaglio di una presunta connessione collettiva incapace pure nella sua scena migliore (il dna del PINN / brodo prebiotico che trasforma la Terra) di destare certi interrogativi.
L'ennesima recitazione monocorde di Johnny Depp corona questo inno alla Trashendenza.

Il cinquantaduenne Wally Pfister, lunga gavetta alle spalle (prima nei notiziari, come il padre, poi “noleggiato” dal solito Roger Corman), è stato il direttore della fotografia in 35mm delle ultime opere di Christopher Nolan, qui produttore esecutivo e pigmalione del suo passaggio alla regia con un progetto fanta-filosofico che avrebbe potuto girare in proprio, con ottimi effetti speciali e attori noti. Ma non basta eccellere in una tecnica: certe doti drammaturgiche (montaggio compreso) sono innate e Pfister, evidentemente, non le possiede. La sceneggiatura dell’esordiente Jack Plagen (che prende spunto dalle teorie dell’informatico Ray Kurzwell, autore di un saggio omonimo) parte da presupposti non nuovi: la mente umana trasferita in un’intelligenza artificiale, il “corpo” posseduto da qualcun altro, l’amore che protegge il mostro che riporta in vita il caro, salvo, poi, prendere coscienza della sua aberrazione. Prima e seconda parte procedono con una narrazione faticosa dove il regista, soprattutto in sala di montaggio, non sa dosare i tempi delle scene o valorizzare quelle, anche di raccordo, atte all’edificazione di un climax efficace: dimentica anche, insieme con lo sceneggiatore, di creare vicinanza con i caratteri prima di gettare lo spettatore nei loro patemi e crucci morali. Per fortuna, la seconda parte offre un’evoluzione del racconto con direttrici intriganti, ed opta per un’apprezzabile chiusura con ambiguità (ricorda il Noah di Aronofsky), sull’umanità meritevole o meno di salvare il proprio libero arbitrio, anziché affidarsi ad un’intelligenza superiore che la risani, ecosistema compreso. L’apologo, cioè, non si sa quanto volutamente, sussurra, senza spiegare, che l’anima del trasferito/trasceso fosse intatta: a seguire riflessioni su quanto fosse “in sé” e sulla natura, benefica o meno, delle sue azioni. Ben resa, anche, la figura del nuovo “Dio con un Piano”, che fa miracoli, connette tutti per un bene superiore e ottiene, a fatica, solo la fiducia di chi l’ha amato in vita (ben riposta: chiusura struggente). Per quanto non del tutto originale, quindi, il racconto possedeva potenzialità non valorizzate da un raccontare che mette troppa carne al fuoco e non sfrutta, nella sua economia, i passaggi salienti.