TRAMA
Laure, 10 anni, ragazzo.
RECENSIONI
“Tomboy” è l'appellativo con il quale vengono qualificate le “maschiacce”: ragazze dai modi bruschi, giovani fanciulle che preferiscono jeans e t-shirt a svolazzanti gonnellini. Non si truccano, e un tale rigetto della maschera che la cultura assegna loro può ingenerare equivoci di matrice identitaria: sono scambiate sovente per ragazzi, stigmatizzate, marginalizzate.
Il secondo film di Cécile Sciamma, che segue l'interessante Naissance des pieuvres, già ruotante attorno alla scoperta di sé e all'incontro di solitudini sfuggenti, si presenta a tutta prima come un esercizio squisitamente identitario di riconoscimento della differenza del/la piccolo/a Laure/Michael, di disamina di un'inconsapevole e candida “distanza” dal coacervo di etichette e categorie che imbrigliano e imbrogliano i corpi: un'identità celata, una storia d'amore (im)possibile. Tomboy parrebbe avere tutte le carte in regola per essere annoverato tra i romanzi di formazione o tra i “racconti rivelazionali”, in cui un/una giovane avverte di non essere come gli altri, verbalizza la sua differenza, si confessa ai genitori, entra a far parte di una comunità che lo/la accoglie a braccia aperte, in attesa che la famiglia prima e la società tutta lo/la riconoscono e lo/la rispettino. Ma la forza del film consiste proprio nel problematizzare la questione, nel superare le strette maglie della categorizzazione, focalizzandosi sull'itinerario personale, soggettivo, corporale e irriducibile di un essere che, nella sua impressionante e irriducibile singolarità, incarna il mistero di un'identità in movimento. Laure vive la sua differenza senza mai verbalizzarla, la sua diversità ha semplicemente un nome, Michael, e lo sguardo dell'istanza riesce a captare il mistero di un essere fluttuante liquidando subito la questione biologica (i dubbi al riguardo vengono dissolti in una fugace inquadratura di alcuni secondi). Dopo aver giocato sull'equivoco e sciolto l'enigma, Sciamma rimescola a quel punto le carte, oltrepassa i malintesi, inevitabilmente ancorati (perché da essa generati) all'identificazione, restituendoci la dimensione tattile, fisica delle relazioni umane: Laure non si guarda più allo specchio, come nella sequenza della pseudo-autoidentificazione che attesta la sua femminilità biologica, ma negli occhi di chi le sta attorno, di chi la ama. Paradossalmente, il mistero si infittisce e si universalizza proprio dopo il disvelamento dell'arcano; la macchina da presa si avvicina ai volti, capta i sospiri e non registra più esternazioni (auto)classificanti. Le parole si perdono, svuotate di senso o rese inutili dalla liquidità, e le dinamiche familiari e sociali, i conflitti generati dalla domestica epifania della differenza non si risolvono ma si dissolvono. L'attesa reazione della madre alla scoperta del “travestimento” della figlia, ad esempio, se nella prima metà del film è centrale come il palesamento della vera identità sessuale di Laure, nella seconda parte diventa superflua, è soltanto una delle costellazioni ruotanti attorno ad un pianeta oramai senza nome. La punizione inflitta alla piccola, la confessione estorta e le scuse porte all'amata suonano volutamente artificiali proprio perché prodotti “innaturali” di una cultura che si crede natura, di un sesso biologico (maschio, femmina) che si crede (e ci fa credere) di essere genere (uomo, donna). Tomboy è un film transgenere in senso stretto: attraversa i generi per far affiorare la natura di un sentimento, una natura che sta inevitabilmente nel mezzo, magmatica, tentacolare (Cfr. Naissance des pieuvres), fluida.
Sì, Tomboy è un film post-identitario liquido, in cui le marginalità si manifestano senza affermarsi, si formano senza per questo fermarsi. Galleggiano. L'acqua, in effetti, è uno degli elementi che più ricorrono nel cinema di Sciamma: dalla piscina della sua opera prima al lago nel quale sguazzano i piccoli protagonisti di Tomboy in una delle sequenze più impressionanti del film. Come già le 'piovre' della precedente opera, alla nascita di un'identità 'altra' segue, per così dire, la fluidificazione dei contorni di genere, come se i personaggi del cinema di Sciamma venissero prima 'fissati' e ingabbiati, poi gettati nel mare magnum dell'indeterminazione; come se il suo cinema prima ci illudesse di essere un sistema 'chiuso' e poi si aprisse inesorabilmente al divenire.
L'autrice riesce proprio a scarnificare il racconto di formazione, rigettandone certi postulati (in primis il momento topico e generativo dell'autoidentificazione: 'Io sono X') e cesellando un racconto transgenere puntellato di momenti di grazia, di stupefacente spontaneità infantile, tra gioco gioioso e gioco al massacro. Come raramente si è visto al cinema negli ultimi trent'anni: l'insostenibile naturalezza della transizione.