TRAMA
Verso la metà dell’Ottocento nel nord dello stato di New York, Abigail si appresta a iniziare un nuovo anno nella fattoria in cui vive con il marito Dyer. Mentre rifette sull’anno che verrà, sfogliando le annotazioni del suo diario, si percepisce il forte contrasto tra il comportamento pacato e stoico della donna e le complesse emozioni che affiorano dalle pagine. All’arrivo della primavera, Abigail incontra Tallie, donna estroversa di straordinaria bellezza, appena trasferitasi con il marito Finney in una fattoria nelle vicinanze. Le due provano a stringere una relazione, riempendo un vuoto nelle loro vite di cui non conoscevano l’esistenza.
RECENSIONI
Nell'America di metà Ottocento che ridisegna caparbia la propria frontiera - e la propria storia insieme a quella, resettandola una volta di più nella promessa d'un nuovo inizio -,Tally (Vanessa Kirby) e Abigail (Katherine Waterstone) s'incontrano quando una si trasferisce nella fattoria che confina con la proprietà dell'altra. Quello che inizia attraverso uno scambio di sguardi, dal calesse al patio e dal patio al calesse, è un amour fou, sì, ma i baci, la passione, i tumulti della carne arrivano quasi tutti alla fine, nella terra straniera e rigorosamente altra della memoria. Perché è lì, nello spazio liminare del pensiero e del ricordo, che Mona Fastvold domicilia il sentimento. Non nell'hic et nunc delle epidermidi, ma nell'altrove disincarnato della scrittura, preferendo al presente della storia il futuro di un mondo ancora di là da venire. Tra le due donne, differenti e complementari nell'indole seppur accomunate dalla consonanza dei loro destini - la maternità, fallita o differita, che pesa su entrambe come uno stigma; la cura come unica funzione possibile in un microcosmo avvelenato dalle mascolinità diversamente accentratrici dei mariti, involuta e ripiegata su se stessa quella di Casey Affleck, violentemente normativa quella di Christopher Abbott - nasce un amore che è innanzitutto una storia. La racconta Abigail nel suo diario annotando parole che, di registrazione in registrazione, scandiscono il film un giorno alla volta, restituendo il trascorrere del tempo e il mutare dei sentimenti insieme a quello delle stagioni (la natura, a un tempo alcova e campo di battaglia, è ritratta nella sua asprezza con algido ed essenziale realismo): è in questa costruzione diaristica il punto del film, che fa della voce off non un dispositivo liricizzante finalizzato alla restituzione immediata della scrittura di Jim Shepard, dalle cui pagine è tratta la sceneggiatura, ma la fondamentale - e fondante - rivendicazione di un "io" che si (ri)scopre tale nel confronto con l'oggetto del proprio amore. Una voce di donna, in prima persona, più forte persino di quella parola di Dio di cui si riempiono la bocca gli uomini nel tentativo brutale di metterla a tacere. «Essere una donna è la più grande sfida che Dio potesse lanciarci, se fallisci non ti sarà promesso nulla se non l'eternità del tuo fallimento» scrive Tiffany McDaniel in Sul lato selvaggio (Atlantide): una sfida che alle donne di Mona Fastvold è dato di vincere, fosse anche soltanto per il tempo effimero di una stagione, di un amore.
Da anni, o forse decenni, il cinema americano prova a dare forma alla nuova ondata femminista che è già da un po’ una parte importante dello Zeitgeist corrente. Fin troppo spesso perde il fiato rincorrendo la televisione, per la quale le questioni di genere si traducono in un mero, ma proficuo, spettro di categorie merceologiche – al netto ovviamente delle eccezioni, e fino a Netflix, che ha reso lampante questa dinamica. Coerentemente con queste premesse, queste operazioni si rivelano il più delle volte prigioniere della loro identificabilità: se si toglie ai film di (ad esempio) Kelly Reichardt i loro programmatici dispositivi artsy, rimane ben poco.
Se The World to Come appare uno dei tentativi in questo senso più soddisfacenti da anni a questa parte, è perché fa saltare le categorie di scala. Il desiderio femminile per lo stesso sesso diventa spettacolo di massa non autocompiacendosi della marginalità “indie” (Brokeback Mountain) o adattando all’oggi il freudismo di massa del melodramma classico (Carol), ma con un’operazione strutturalmente bifronte: da un lato gonfia la short story di partenza (Jim Shepard) fino a costruire un autentico romanzo per il cinema a furia di stratificazioni, tutte peraltro leggibilissime; dall’altro scommette lautamente sull’assai poco mainstream fascinazione sensuale e materica che il 16mm, tipicamente, porta con sé.
Come lo squinternato artista al centro di Welcome to Marwen di Zemeckis (altra parabola “gender” dal lato, però, maschile), Abigail e Tallie, mogli di contadini dell’upstate New York di metà Ottocento affascinate l’una dall’altra, non sono due marginali: sono al centro esatto della Storia con la S maiuscola. Il loro amore, che pur non disdegnando il contatto fisico non è di carattere strettamente sessuale, non è oggetto di rimpianto malinconico verso ciò che è incompiuto, ma il “lato B” che scorre compiutamente dentro il desiderio maschile di natura ossessiva - che è poi il desiderio tecno-capitalista su cui è stata costruita l’America. Scrivendo con la luce, e con una magistrale direzione di attori, il romanzo ottocentesco proto-woolfiano che l’America coerentemente non ha mai conosciuto perché fondatasi sul disconoscimento, in favore del desiderio ossessivo maschile, di quello femminile, Fastvold fa di quest’ultimo qualcosa di assai meglio, e di molto più appropriato, di un semplice e melodrammatico “rimosso che ritorna”. Non il rimpianto verso l’incompiuto, verso ciò che non c’è stato, ma la consapevolezza serena di ciò che non ha bisogno di compiersi per essere presente sempre e dappertutto.
Questa pervasività illocalizzabile e “anti-fallica” del desiderio femminile (omosessuale), Fastvold sceglie di materializzarla con uno strumento che nelle mani del 99% dei registi indipendenti americani risulterebbe un’oziosa e stucchevole scorciatoia: il 16mm. Con impressionante sensibilità visuale, e con la complicità dello splendore virginale delle location rumene, la cineasta riesce ad utilizzare il relativamente anomalo formato quale reale prolungamento visivo della tenerezza sensuale e non sessuale (ma non per questo anti-sessuale) infusa tonalmente in tutto il film, traduzione fedele dell’evento che ha cambiato per sempre la vita di Abigail alle origini dell’America. In quelle origini, questo sembra suggerirci The World to Come, si annida qualcosa che è sfuggito alla morsa dello Sviluppo, e che dunque dobbiamo imparare a riconoscere come sempre presente: nel futuro come nel passato.