Hammer, Horror, Recensione

THE WOMAN IN BLACK

Titolo OriginaleThe Woman in Black
NazioneGran Bretagna/ Canada/ Svezia
Anno Produzione2012
Genere
Durata95'
Tratto dadal romanzo di Susan Hill
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Età vittoriana, il giovane avvocato Arthur Kipps viene inviato in un villaggio per occuparsi dell’eredità di una cliente defunta. Ovvero una casa infestata.

RECENSIONI

La nuova Hammer di Simon Oakes, dopo la riapertura nel 2008, ha annunciato la sua linea: ricreare il cinema horror inglese del ventennio ’50-60, segnato dal nume Terence Fisher, all’insegna della rievocazione di quelle atmosfere. Nessun remake, ha assicurato la casa di produzione, ma una minuziosa azione filologica di ricostruzione di tempi, storie e moduli narrativi. Chiarito che l’obiettivo non è sfidare La mummia o Dracula il vampiro, dunque, diventa solare il carattere dell’operazione: è una riesumazione aggiornata, una specie di seduta spiritica per richiamare l’horror di 60 anni fa e inserirlo nei nostri giorni. Ovviamente si può leggere come semplice atto di amore, omaggio complessivo al “mondo che fu” del genere; ma dall’altra parte – se vogliamo – c’è un elemento voluto e provocatorio nel guardare indietro e non avanti, trattando così apertamente l’archetipo (la casa stregata, il fantasma) come a dire: disinteressati all’horror contemporaneo torniamo chiaramente all’inizio, senza giri di parole, alla ghost story e al gotico walpoliano, alla pre-moderna paura dei fantasmi.

In questo contesto si inserisce The Woman in Black: James Watkins adatta il racconto di Susan Hill del 1983 (un classico inglese, da cui l'omonima piéce teatrale) con la collaborazione della scrittrice alla sceneggiatura. Il regista di Eden Lake rispetta le premesse hammeriane, dall'ambientazione al cast all british fino alla leggibilità del contesto: malgrado il mistero resti formalmente intatto (chi è lo spettro, perché agisce?), la divisione dei ruoli è subito palese, dall’investigatore (Kipps/Radcliffe) al “mostro” passando per la diffidenza dei paesani e la spalla scettica che respinge il paranormale (Mr. Daily interpretato da Ciarán Hinds). Insieme ai personaggi, anche luoghi e situazioni rispettano il topos: il villaggio, la locanda, la palude...  Le citazioni dunque si sprecano [1]  ma, dati i presupposti, non c'è niente di male: lavorando sulla tela retrò con consapevolezza assoluta, all’autore riesce felicemente la riscrittura in copia-carbone degli stereotipi. Inoltre Watkins chiarisce le sue qualità registiche piazzando il colpo di un grande doppia scena: l’inizio e il finale, legati da un filo funebre (il triplo suicidio delle bambine/la tragica fine di Kipps e figlio), rispettivamente virate sul bianco e sul nero ma con lo stesso, spiazzante risultato. Lascia più perplessi, invece, l’aggiornamento alla richiesta narrativa contemporanea, ovvero la tendenza ad assecondare alcuni dettati dell’odierno cinema occidentale: ecco allora l’horror con apparizioni improvvise accompagnate da esplosioni sonore, rivelazioni facili e abusate anche nel contesto sovrannaturale, una lunga serie di rumori e presenze. Paradossalmente, il film riesce meglio a evocare l’Hammer touch che i coevi prodotti di genere.

Tutta da leggere la presenza protagonistica di Daniel Radcliffe. L’ex Harry Potter, chiamato a 22 anni ad interpretare un ruolo più adulto di lui, a ben vedere risponde allo spirito dell’operazione: come la Hammer usava gli stessi attori per conquistare e fidelizzare la platea, così il giovane londinese è l’adeguato volto commerciale che conosce la sua fascia di pubblico. L’attore è molto lontano da una recitazione sfaccettata e compiuta (che abbracci il figlio o sprofondi nella palude, l’espressione è sempre la stessa), ma va inquadrato nell’uso che ne fa la pellicola: essa opera un rovesciamento sull’immaginario della figura, da maghetto a detective inerme nella casa infestata, e sfrutta a dovere la sua faccia di pietra per offrire una variante sull’uomo comune sconcertato davanti al paranormale. Insomma, negli oggettivi limiti e difetti, ogni cosa ha un suo senso.

[1] Nel gioco lungo e (forse) divertente dei rimandi, mi limito a suggerire di non escludere l’horror italiano: Kipps scopre un disegno nel muro (Profondo rosso), Kipps e figlio entrano letteralmente nell’aldilà nel fulciano finale...

Lunga vita alla rinascita della Hammer: dopo Blood Story, questo è il primo, vero tentativo di riesumare anche i tratti stilistici distintivi che ne hanno fatto una casa di produzione di culto, per opere horror, negli anni cinquanta/sessanta. Lo spaventoso racconto della scrittrice Susan Hill (“La donna in nero”), già trasposto per il piccolo schermo da Herbert Wise nel 1989 (e con buoni risultati) e, in seguito, trasformato anche in produzione teatrale, è terreno ottimale per rispolverare il gotico, il dramma in costume (immancabile la pseudo - età vittoriana, anche se il racconto è ambientato ai primi del Novecento), scenografie aristocratiche fatiscenti, ombre e nebbie, una paura che vive più d’atmosfera che del colpo basso facile, del trucco o dell’effetto speciale. Daniel - Harry Potter - Radcliffe non si può certo dire un grande attore, ma ha il gusto e la misura per non strafare, risultando funzionale al racconto: quando entra nel villaggio sperduto ed ostile, siamo certi di essere tornati in Transilvania, dalle parti di Dracula con il suo castello, ovvero questa villa nel Northamptonshire (ma è il digitale a creare quel meraviglioso non-luogo della palude, con la strada che la ricongiunge alla terra…dei vivi, previa marea) che diventa “casa infestata”, sondata da una regia con il gusto per il dettaglio, fra giocattoli-carillon inquietanti (vere reliquie prestate alla produzione da un collezionista), incartamenti, candele, una vedova che sbuca nel buio da dietro una tenda. James Watkins, inoltre, ed è il vero valore aggiunto alla mera operazione-nostalgia, sa spaventare: memorabile la scena, introdotta da un lungo corridoio, della stanza Dietro la Porta Chiusa, con il rumore ossessivo della sedia a dondolo; altrettanto magnifica quella in cui il volto del Belfagor compare, all’improvviso, riflesso nel vetro della finestra e si mette ad urlare. Brividi. Peccato che, ad un certo punto, la drammaturgia (sceneggiatura di Jane - Kick - Ass - Goldman), diventi frettolosa ed inverosimile: troppo repentina, ad esempio, l’intuizione di Arthur che sia necessario rinvenire il corpo del figlio morto del fantasma, e troppo facile il modo con cui lo ritrova. Ci pensa il finale - shock a riportare il tutto in carreggiata, con chiusura ambigua sul fantasma che guarda direttamente in macchina da presa per minacciarci: ricambia il favore ad Arthur…ricongiungendolo ai suoi cari.