TRAMA
La storia di Philippe Petit, funambolo, che nel 1974 camminò su un cavo d’acciao, senza protezioni, tra le Torri Gemelle.
RECENSIONI
La componente autoreferenziale di The Walk è abbastanza evidente, e sta tutta già nel prologo: quel “perché?” che Philippe Petit si chiede guardando in macchina è il perché che aleggia in molto cinema di Zemeckis, specialmente in quello più personale ed estremo. Nei film sfida. Tipo Polar Express, o Beowulf, opere asservite a un rarefatto progetto meta-tecnologico-estetico, dove si parte dall’elemento attoriale (dunque umano) per disumanizzarlo/digitalizzarlo con l’intento di tornare per vie traverse al realismo originario. Perché? Petit non fornisce una risposta convincente, così come Zemeckis. O meglio, le risposte sarebbero anche tante ma nessuna è, probabilmente, definitiva, univoca, vera. Certe imprese si compiono “perché sì”, per volontà, per misteriosa necessità. Il resto passa in secondo piano, il resto conta poco o nulla. Ecco, l’ultimo film di Zemeckis funziona un po’ così. Il regista e il suo (alter) ego raccontano la storia del funambolo che passò da una torre gemella all’altra camminando su un cavo d’acciaio. Ed è quello, che interessa, è quella passeggiata finale che sembra importare a Zemeckis. Come se la realizzazione tecnico/cinematografica del sogno realizzato di Petit fosse in qualche modo autosufficiente, bastasse a se stessa e al film. Così come il coraggioso francese riuscì a completare il suo progetto ritenuto impossibile, allo stesso modo Robert Zemeckis tenta l’impossibile riproposizione di quei momenti, riedificando artificialmente le twin towers e cercando di rendere, a colpi di specifico (poco pro)filmico, l’emozione, l’ansia, la vertigine, il vuoto.
Non mancano i problemi, però. Il primo è che la storia ha un epilogo noto, e il banale elemento suspense non può non risentirne. Sappiamo esattamente come va a finire e nessuno ha paura che il protagonista cada. Sembra una stupidaggine ma forse non lo è. Il secondo problema è che, in maniera non dissimile a quello che accadeva nel recente Everest, delle sorti dell’impavido funambolo, che rischia la vita in maniera, se vogliamo, abbastanza gratuita, ci importa il giusto. Ci importa il giusto a più livelli, non solo per la citata gratuità dell’impresa ma perché il film non fa niente per farci appassionare alle sorti dei suoi protagonisti. La prima parte è fredda, distaccata, i personaggi vengono presentati e caratterizzati in maniera approssimativa, lo sviluppo narrativo ha qualcosa di meccanico, posticcio, quasi tirato via, con spunti potenzialmente interessanti gestiti male e abbandonati in fretta (il personaggio di Papa Rudy). Si deve aspettare la preparazione dell’impresa per avere un po’ di vita cinematografica, qualche guizzo entertaining, benché adagiato su stanchi cliché di Genere (le fasi preparatorie degli action alla Mission Impossible). Poi si arriva alla camminata. La (lunga) sequenza (perché lunga fu la camminata) funziona? Sì e no. Sì perché Zemeckis è un ottimo tecnico e sa dove piazzare la mdp (più o meno virtuale) per ottenere gli effetti desiderati. No perché quella sequenza, per quanto ben girata, non può essere il film. Anche perché, comunque, quell’impressione di freddezza, di distacco persiste anche nei momenti – teoricamente – più spettacolari. Se si aggiunge la considerazione che, come già ricordato, gli esiti della vicenda sono noti e che il protagonista ci rimane “estraneo”, si ha come risultato una sostanziale, generalizzata apatia, madre dell’indifferenza (e della noia), appena movimentata da qualche timido accenno di vertigine.
Può un film essere pensato e realizzato “contro un monumento”? A giudicare da The Walk, si direbbe proprio di sí. Davanti all'ultima fatica di Robert Zemeckis, che davvero non sta “né in cielo né in terra” (il che non è necessariamente un male), è difficile non pensare a “Reflecting Absence”, il memoriale che oggi è possibile visitare a Ground Zero. È anche facile accorgersi, tuttavia, che le implicazioni di The Walk sono diametralmente opposte a quelle di “Reflecting Absence”. Quest'ultimo consiste, soprattutto, nel perpetuo movimento verticale dell'acqua nelle cascatelle concentriche che si inabissano nel terreno uno strato dopo l'altro, proprio là dove un tempo si ergevano le due torri: quali che fossero le intenzioni dei due autori (Michel Arad e Peter Walker), è chiaro che una disposizione del genere non fa che eternare la caduta di quegli edifici. Perfetta epitome del neocapitalismo digitale, “Reflecting Absence” asserisce una continuità, nel rovesciamento, tra movimento ascendente (le torri, quando esistevano) e movimento discendente (le cascatelle che prendono il loro posto), tra l'espansione trionfante del capitale e la sua perpetua crisi. The Walk, come viene reso esplicito nel prefinale, mira nientemeno che a reinventare l'immagine delle due torri; a sottrarla, dunque, al circuito chiuso capitalista ascesa-caduta, espansione-crisi, pedissequamente assecondato dall'arte contemporanea, la quale, nella misura in cui si affida alla rappresentazione come suo solito, rimane prigioniera del circuito chiuso presenza-assenza. Cerca insomma di restituire all'immagine delle torri il carattere di transitorietà che quel circuito chiuso finisce per eclissare. Sceglie dunque la pratica che per eccellenza viene ricondotta alla categoria della transitorietà: la performance.
Il film ricostruisce infatti la folle ambizione e i folli sforzi di Philippe Petit, di fare delle torri gemelle ancora in costruzione, nel 1974, il teatro di una performance da consumare nell'arco di pochi minuti, durante i quali egli sarebbe passato da una torre all'altra camminando in equilibrio su di una corda tirata tra l'una e l'altra. È il protagonista stesso a raccontare le sue imprese in flashback, guardandoci dritto negli occhi attraverso l'obbiettivo, da sopra la Statua della Libertà, con le torri digitalmente ricostruite sullo sfondo. Già in questa prima scena, insomma, Zemeckis rende chiaro che intende far confluire l'una nell'altra la performance di Petit con la performance tecnica degli effetti speciali. La sua intera carriera, del resto, è ruotata intorno agli effetti speciali: Zemeckis fu uno dei whizkids che, insieme a Spielberg e ad altri, capí molto presto, cioè fin da metà anni Settanta, che gli Studios stavano mettendo in moto una radicale riorganizzazione che passava per l'assorbimento della lezione della New Hollywood (a sua volta parzialmente debitrice della nouvelle vague francese), e per la svalutazione del racconto in favore di un paradossale, ma anche para-circense ritorno al "cinema delle attrazioni" che aveva contraddistinto gli albori della settima arte, grazie al peso sempre maggiore attribuito agli effetti speciali. (Si noterà, en passant, che a questo proposito è difficile che un regista consapevole come Zemeckis abbia ambientato metà del suo film in Francia, tra gli artisti da strada e sotto i tendoni dei circhi).
Là dove l'estetica degli effetti speciali e l'estetica della performance si saldano insieme, è l'etica dello spreco. "Perché?" è la prima parola che sentiamo, sulla primissima inquadratura del film, e appone il marchio di una scandalosa gratuità tanto all'impresa del funambolo quanto al film che la celebra. Settimane spese a mettere in piedi un evento dalla plateale improduttività durato pochi minuti. E anche lí, la performance c'è solo in quanto in eccesso rispetto a se stessa: di fatto, comincia solo quando finisce, nella misura in cui, anziché terminarla una volta raggiunto l'altro capo della corda, Petit torna indietro e si fa svariati altri giri di fune sospeso a mezzo chilometro d'altezza, avendo visto sul tetto i poliziotti venuti a prenderlo. O è in eccesso rispetto ai suoi contorni, o non è. Molti indizi, del resto, sembrano qualificare la follia di Petit come, innanzitutto, una necessità di esorcizzare la fine, il chiudersi delle cose dentro a contorni definiti: non sopporta che "le carote siano cotte" (cioè che, secondo l'espressione francese, "il dado sia tratto"); inizia il suo racconto dicendo che della morte nemmeno vuole sentir parlare, perché nonostante i rischi la sua camminata a mezz'aria è vita e solo vita; chiama "bara" la cassa piena degli strumenti della sua performance (di nuovo: la performance non sta nella performance preconfezionata, ma nel suo eccesso); senza dimenticare che centinaia di volte, nella sua carriera, la fine delle sue performance è stata segnata dal poco piacevole arrivo della polizia.
Quanto a The Walk, sembra essere innanzitutto un gigantesco "sí, e allora?" rivolto agli ingenui che per decenni hanno lamentato l'esiguità del racconto "nell'era degli effetti speciali". Nata come diligente gemmazione di quella spielberghiana, l'affabulazione zemeckisiana continua a contraddistinguersi, quasi quarant'anni dopo, per il virtuosismo di articolazioni narrative che si srotolano "sottovuoto", privo di contrappesi, segnato unicamente dallo zelo di tirare avanti il racconto, di macinare con sempre più efficienza una spietatamente preconfezionata, storyboardata, post-Hitchcockiana “direzione dello spettatore”. Proprio come Philippe, il regista ovunque vede due punti grossomodo paralleli traccia una linea rossa, trasforma tutto in combustibile narrativo, cava il sangue da un soggettino che è meno di una rapa a forza di stiparlo di imbarazzanti personaggi di contorno per celare la propria esilità, e di creare ostacoli totalmente arbitrari che facciano vece di suspense. Col suo fare il vuoto intorno al continuo passaggio da presente narrativo a presente narrativo, l'affabulazione zemeckisiana trova davvero il suo equivalente nell'immagine del funambolo che, sul filo, mette sistematicamente un passo davanti all'altro. The Walk rivendica, facendosene un vanto, l'opportunità di sprecare quasi un film intero in zavorra narrativa, un pretesto inconsistente "rianimato" per un'ora e mezza con l'affabulazione di cui sopra come si rianimerebbe un paziente clinicamente morto, un mero supporto a fornire le premesse affinché il 3D possa srotolarsi in tutta la sua gloria bruciandosi in una manciata di minuti. Quando il momento dell'esibizione arriva, la resa di profondità e altezza è effettivamente sbalorditiva, ma colpisce soprattutto quanto qui il 3D sia gagliardamente inutile: non ci si sogna neppure di "impiegarlo" ai fini della suspense (che tuttalpiù è servita prima di quel momento ad animare un racconto intrinsecamente smunto), ma sta lí, galleggia a lato della narrazione. Al posto del consueto incastro tra narrazione e effetto speciale, la regia si limita a reiterare il secondo sul tenuissimo sfondo della prima. Se essa è ridotta al suo grado zero (uno che cammina da A a B, senza altro spunto drammaturgico, meno che mai la possibilità di una caduta), il 3D stesso è ridotto al suo grado zero, facendo retrocedere al pre-cinema (il diorama?) l'annosa identificazione tra gli effetti speciali e le "attrazioni" para-circensi del cinema delle origini: sullo sfondo del sistematico spreco del tempo, che non solo è racconto ma anche denaro (con il quale si realizzano, fra l'altro, effetti speciali dalla grandiosa inutilità), campeggia lo spazio come movimento in potenza. "Sarebbe uno spreco di spazio": cosí Ellie, in Contact, chiosava sull'ipotesi che nel cosmo non ci fossero alieni. Lí, gli alieni rappresentavano soprattutto qualsiasi "altrove" che potesse scatenare l'immaginario, e quindi la potenzialità; il 3D, pare dirci Zemeckis, è finalmente uno "spreco di spazio" che incarna la forma pura della potenzialità senza bisogno degli alieni o di altre facili esche dell'immaginario.
Marcel Mauss, nel suo Saggio sul dono, si concentrava, come noto riprendolo da Boas, sul potlatch, rituale scambio di beni dalla forte valenza sociale che, in alcune tribù dell'America nord-occidentale, sfumava in uno spreco materiale sempre più parossistico. Anche se nel frattempo è diventato un luogo comune dell'antropologia "da Reader's Digest" (e senza dimenticare che un Guy Debord, da lettrista prima e da situazionista poi, gli tributó grande attenzione), non è peregrino riesumare il potlatch a proposito di The Walk. Nel corso della sua performance, Petit si inchina davanti al pubblico: sa benissimo che quello che sta facendo ha una precisa valenza sociale. E lo sa bene anche Zemeckis, che dedica a quest'inchino anche un'altra scena, nella prima parte, dove il maestro di Petit insegna a quest'ultimo come e perché si fa. Entrambe le scene, naturalmente, non hanno nessuna utilità narrativa, ma proprio per questo sono cruciali per collocare l'operazione di Zemeckis, tanto quanto l'inutile e cruciale personaggio del fotografo che, sul tetto dell'altra torre, sta lí con la sua macchina fotografica a documentare quella performance. Zemeckis sembra dirci insomma che solo oggi che le torri non ci sono più, che la performance stessa risulta infattibile e dunque non documentabile (non è un caso se quasi sempre le foto scattate da costui non documentano che una performance variamente abortita), il gesto di Petit acquista tutto il suo senso, proprio oggi che la rilevanza stessa della documentazione analogica dell'evento viene bruscamente marginalizzata dall'avvento del digitale. Tirando una linea tra Debord e Chesterton (perché fra le altre cose The Walk sbeffeggia apertamente la controcultura affermando che i veri terroristi sono gli assicuratori), Zemeckis reinventa digitalmente la performance di Petit per sottolineare che quello che in essa importava era il balenare della possibilità di riappropriarsi collettivamente dello spreco. In un film in cui si fa un gran parlare di arte e di sovversione, quest'ultima finisce per consistere nel ricongiungere la macchina capitalista con quel suo intimo "motore" che il più delle volte è costretta a occultare, ovvero lo spreco, e anzi nel fare di quest'ultimo una sorta di utopico collante societario, anche solo per lo spazio di una proiezione, per strappare come e meglio della performance al circuito chiuso di assenza e presenza, espansione e contrazione, la forma pura della potenzialità. Con questo suo film fin troppo deliberatamente scombiccherato (si tratta pur sempre della mente dietro 1941 di Spielberg), che non manca di apporre un sigillo inequivocabile a questo squilibrio volontario precludendo ai protagonisti di convolare a giuste nozze come vorrebbe il galateo hollywoodiano, Zemeckis cerca di riscrivere la storia, il senso e la funzione di quella che fu la svolta "postmoderna" degli Studios a partire da metà degli anni Settanta, intrecciandola con la reinvenzione di quello che le torri gemelle avrebbero potuto essere e per questo ora possono essere dal momento che non ci sono più: al di là di assenza e presenza, al di là dell'espansione capitalistica come della sua contrazione, un monumento alla transitorietà, allo sviluppo come spreco, in modo da restituire alla potenzialità il fulgore dell'istante prima che diventi atto.
Film operato di sogno: Robert Zemeckis impronta come un atto artistico l’impresa “illegale” ma incomparabile di Philippe Petit, basandosi sulla sua autobiografia “Toccare le nuvole fra le Twin Towers - i miei ricordi di funambolo”. Tutto il film indossa le vesti di un’avventura scanzonata, emotivamente coinvolgente, dove l’agiografia del protagonista (che ci accompagna come ‘Io narrante’ di fronte alla macchina da presa), dei personaggi (anche) macchietta che lo sostengono, della preparazione di quello che è, mascherato, un heist movie, non è tanto affabulazione hollywoodiana fine a se stessa, quanto volontà di improntare alla magia il racconto, con le Torri Gemelle che, pur non nominando mai l’11 settembre, sono co-protagoniste (“chiamano” Petit) e hanno ricevuto “un’anima” dall’impresa del francese. Il 3D del Zemeckis sperimentatore è fondamentale per gli abissali sguardi nel vuoto: a non funzionare è solo la durata eccessiva per “una storia vera” in cui è ovvio/noto che l’impresa riuscirà (se non altro, guardando il documentario premio Oscar Man on Wire). Privi della tensione necessaria in assenza di indeterminatezza, Zemeckis indugia oltremodo in imprevisti anche insignificanti durante il “colpo”. La controfigura di Joseph Gordon-Levitt è Jade Kindar-Martin, uno dei più grandi funamboli del mondo, ma lo stesso Petit ha addestrato l’attore.