TRAMA
Truman Burbank è stato adottato da un network che manda in onda, a sua insaputa, la sua vita 24 ore su 24.
RECENSIONI
L'idea diventa favolosa (se non nuova: vedi Il Divo della Porta Accanto di Michel Poulette, leggi “L’uomo dei giochi a premio” di Dick) nel momento in cui è trasportata sulle ali di un'allegoria tragicomica dell'invasività del media nella sfera privata, circoscrivendo il pericolo della deformazione della realtà, della falsità nei rapporti interpersonali, del bisogno del singolo, da un lato, di un ambiente protettivo per quanto fittizio e opprimente, dall'altro della sua ansia di affrancamento dai ruoli rigidi che propone la società. Tutti i personaggi principali della filmografia di Peter Weir vivono lo spaesamento in un ambiente che sentono estraneo, e questo pare essere anche il tema preferito dello sceneggiatore neozelandese Andrew Niccol (vedi Gattaca). Come la maschera di Jim Carrey, che schiva la comicità per vivere un incubo, la pellicola ride amaro anche nei suoi momenti più divertenti (le "sponsorizzazioni" della moglie, il controcampo sulle reazioni del pubblico, la gag dell'agenzia di viaggi tappezzata di manifesti sugli incidenti aerei): sotto la patina edulcorata della "messinscena" si nasconde la deprimente verità sul significato dell'esserci, per se stessi e per gli altri. Quello di Weir diventa un alto saggio di metacinema in quanto rivela gli artifici mentre instilla l'emozione attraverso l'unica figura che non è fittizia, quella di Truman. Il personaggio di Ed Harris non rappresenta solo il regista demiurgo e manipolatore, ma anche il dio/idolo (si chiama Christo-phe), in altre parole la sete di potere dell'uomo che anela ad eguagliare il Creatore. I titoli di testa sono quelli dello show nello show, noi tutti spettatori diventiamo oggetto della satira, voyeur che amano vivere la vita altrui e non vogliono riconoscere l'inganno anche quando è palese (i patetici aggiustamenti work-in-progress degli sceneggiatori). La fiction è controllabile, la vita vera no: meglio il male del mondo che un bene finto. Aspettando "Il grande fratello". Maestro di pathos (epica la fuga in barca a vela, romantica la foto a "puzzle" dell'amata), Weir, in tempi migliori (Picnic ad Hanging Rock), avrebbe osato anche di più, refrattario com'era alle "chiusure", ai racconti strutturati e prevedibili.

Il cielo precipita sulle placide linee di un quartiere residenziale: una scheggia, cometa ribelle, rivela il protagonista a se stesso. The Truman Show (diretto da Christof) non è un programma trash, ma un film in diretta che dura da trent’anni: impostato in modo del tutto classico [la vita di un uomo allo stesso tempo qualunque e speciale (speciale per il fatto di essere costantemente osservato e/o osservabile)], interamente girato in studio, interpretato (per la maggior parte) da attori professionisti, capace di creare un universo testuale complesso e coerente (la natura allusiva e simil-Hays delle sequenze erotiche). The Truman Show (di Weir) possiede lo stesso scheletro: il riscatto di un (anti)eroe umiliato e offeso (e non cosciente), l’amore come (incipit di) redenzione, l’aspro cammino verso l’autodeterminazione, il tutto secondo i canoni di un cinema di olimpica perfezione. È inutile distinguere fra realtà e finzione: la verità è data dalla meticolosa somma delle menzogne progettate o subite. Gli ordini cifrati e i disordini scenografici che attraversano il campo sensoriale di Truman non sono poi così diversi dal puzzle fotografico che cerca di catturare il ricordo di un amore svanito nel nulla e nella pioggia individuale; la verità esiste soltanto in presenza di un occhio in grado di catturare ordinare modellare i dati sensoriali (specialmente visivi). La realtà vuole un regista crudele. Truman, Edipo (non più) cieco, affronta il Padre, gli strappa lo scettro del potere, ascende al cielo e svanisce nel buio di un game over perso nel tempo nello spazio nel significato (nonostante ogni ellittica protesta di felicità): allo stesso modo, lo spettatore (non solo televisivo) dovrà scegliere nuove visioni, senza disperare delle proprie capacità cognitive. La regia stilizzata, (quasi) mai manierata, sottolinea, senza gridarla, la portata metalinguistica del gioco al massacro: in un’atmosfera lucida(ta) e spettrale emergono gli impeccabili dialoghi di Andrew Niccol e le prove di un cast di superba omogeneità.
