TRAMA
Christian, curatore di un museo di arte contemporanea a Stoccolma, precipita in un serie di progressive disavventure che lo metteranno in scacco.
RECENSIONI
Inizia a prendere vaga forma durante ricerche e sopralluoghi per Play, film ispirato a rapine tra giovanissimi avvenute, peraltro di giorno, nella tranquillità di Göteborg. Fatti accaduti sui mezzi pubblici e nei centri commerciali, in piazza, con gli adulti a pochi metri ma refrattari all’aiuto, a un intervento. Tutto per via di quello che gli analisti di comportamenti sociali definiscono “effetto spettatore”, in connessione con la cosiddetta “diffusione di responsabilità”: in pratica, più si è in tanti in determinate circostanze, in situazioni-limite, meno si reagisce (YouTube e social network ampiamente dimostrano). Passano alcuni anni, passa Play, e quella idea primordiale si trasforma nel 2014 in un’installazione – diventata poi permanente nella piazza centrale della città – al Vandalorum Museum di Värnamo, Svezia meridionale: un quadrato illuminato a led, chi è al suo interno deve dare sostegno, intervenire a favore dell’altro, degli altri. Esiliati, invisibili fuori, protetti dentro, come a dare una nuova, comune, forma di esistenza, di solidarietà. Da lì, arriva il film, Palma d’oro a Cannes 2017. Da lì The Square di Ruben Östlund – dramma e commedia infusi in grottesco – parte inventandosi il personaggio di Christian (Claes Bang), curatore di un museo di arte contemporanea a Stoccolma che a breve inaugurerà l’installazione “The Square”, opera di un’artista argentina, arte relazionale così come predicato da Nicola Bourriaud, con significato e impatto sociale. Niente a che vedere con la statua equestre che, con accompagnamento di una versione beffarda dell’Ave Maria di Gounod, viene rimossa con tanto di esilarante caduta e più che simbolica decapitazione. La nuova arte, il “quadrato” magico, diventa una specie di mantra visivo continuamente ritornante, dalla tromba delle scale alle pareti, si applica come assunto di tensione mai compiuta alla vicinanza, alla contiguità, si espande quando diventa piazza, quella stessa dove ambulano questuanti che ripetono a chi passa: “Vuoi salvare una vita umana?”. E quella piazza sembra quasi il campo di un videogioco, si allarga, si restringe come in una specie di unico respiro, inspirare/espirare di un’umanità senza ossigeno, di un’umanità senza umanità. E Christian, in questo attraversamento, mentre fisicamente taglia l’agorà, è una specie di Truman Burbank, anche se non c’è nessuno show a osservarlo perché quel ruolo Östlund l’ha consegnato a noi spettatori che applichiamo lo stesso raffreddamento entomologico del grande occhio. Il protagonista avanza di tappa in tappa, di fallimento in fallimento, di caduta in caduta, fino alla débâcle terminale, il compimento antropologico della tesi che, intanto, si è un po’ smarrita insieme all’interesse per il film. Tutto tanto freddo, spiattellato e, in realtà, esplicativo, che, alla fine, non riesce a disturbarci fino in fondo neanche l’incursione della “scimmia nuda” (Terry Notary) nella serata di gala, o lo spot che sembra preconizzare la pubblicità con meteorite di una nota merendina: stesso ragionamento. E, allora, dove sta il significato di questo film? La risposta “lampante” va cercata, probabilmente, in una delle opere in mostra nelle sale del museo diretto dal protagonista, in quel cumulo di ghiaia con la scritta al neon: “You have nothing”. Preparando una feroce critica alla vacuità dell’arte contemporanea, alla sua autoreferenzialità, il film finisce per essere affine a tutte queste pose, a queste attitudini, le esprime in pieno, dando la sensazione finale (i finali, anzi “i secondi tempi”, un problema di questo regista) di restare con poco tra le mani. The Square, dunque, sono 142 minuti di metodo Östlund (anche se è facile pensare a un arco che da Buñuel porta a von Trier). Cioè di uno bravo – come insegnano, ad esempio, i ragazzini di Play o la famiglia svedese in vacanza con acclusa crisi sulle Alpi di Forza maggiore – e cha sa di esserlo. Autore che sembra disinteressato ad assecondare ogni gusto preordinato, ma che al contempo sa che produrre un effetto è fondamentale. E, d’accordo, il tempo della narrazione, dell’inquadratura, sono sì questione d’autore, ma ciò non ne fa automaticamente questione di sguardo. Ecco, il problema sta proprio qui.
L’installazione 'The Square' è stata creata dal regista nel 2014 a Värnamo, come invito per i cittadini a fidarsi uno dell’altro: partendo da essa, Ruben Östlund appronta uno studio sociologico a mosaico sull’essere umano civilizzato, con scene apparentemente scollegate e pregnanti di per sé, da ricongiungere in un quadrato generale. È straordinario il tono che, in forma di dramma, mette in scena la commedia umana: spesso cullate dall’Aria dalla Suite n° 3 in re maggiore di Bach arrangiata per voci, le scene comiche o sarcastiche non debordano e abitano un passo narrativo magnetico, sia per l’inventiva degli accadimenti, sia per l’eccezionalità mantenuta sottotono, sia per il mistero sul collante allegorico. Ogni atto del protagonista (il danese Claes Bang, eccellente) può essere letto come avvicinamento o allontanamento dai valori perduti della fiducia e della solidarietà ma nel segno dell’ambiguità: è un essere individualista che tramanda l’importanza dei principi sociali alle figlie; per quanto opportunista con simulazione della spontaneità, ha una coscienza che gli rimorde nel non fare la cosa giusta. Il tipico bivio morale di Östlund allarga la prospettiva rifiutando la logica del bianco e del nero, ad esempio controbilanciando la villania di Christian con le pretese irragionevoli della giornalista di Elisabeth Moss, oppure lo scandalo dello spot che specula sui deboli con il pericolo dell’auto-censura che limita la libertà di espressione. Un gioco anarchico d’irrisione che lascia in campo i fari morali ma tiene aperte le interpretazioni per gran parte della durata, fino a che, purtroppo, Östlund non sente il bisogno di essere integralista contro l’ipocrisia, abbandona la commedia, scopre le carte e perde la comprensione olistica per sposare la tesi. Ritrova l’equilibrio la geniale scena lanthimosiana alla cena di gala dei Vip (ispirata a una performance dell’artista russo Oleg Kulik), in cui la scimmia dell’Arte dissigilla le deformità dell’uomo civilizzato travolto da paure ataviche. Palma d’Oro a Cannes.