Horror

THE RING

Titolo OriginaleThe Ring
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2002
Genere
Durata115'
Sceneggiatura
Tratto dadal romanzo Ringu di Koji Suzuki
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Mentre sta indagando sulla misteriosa morte della nipote, la reporter Rachel Keller scopre che il decesso potrebbe essere stato causato da una videocassetta la cui visione procura la morte dopo una settimana. Rachel trova il video e lo guarda. Le restano sette giorni per non morire. Tra leggenda metropolitana e ineluttabile realtà il confine diventa molto sottile.

RECENSIONI

La Televisione genera Mostri

Ce lo ricorda sempre piu' spesso la D'Eusanio e il cinema non manca di puntualizzarlo attraverso il malefico condizionamento di un tubo catodico disturbato e disturbante. L'idea non e' certo originale e ha avuto ampi trattamenti, dal malsano "Videodrome" di David Cronenberg al monito di Peter Weir in "Truman Show", passando per la t.v. sempre accesa di "Poltergeist" di Tobe Hooper. Anche al centro di "The ring" c'e' un televisore, ma cio' che destabilizza la quotidianita' di una giovane giornalista e' una videocassetta: se la guardi, dopo sette giorni muori. L'interessante soggetto non brucia le sue carte nella prima mezzora, ma prevede tensione e colpi di scena in grado di incollare lo spettatore allo schermo. Peccato che la sceneggiatura appiattisca personaggi e situazioni non sfruttando l'alto potenziale a disposizione. La famiglia protagonista non sfugge al luogo comune: lei cazzuta e solo in apparenza vulnerabile, lui un po' incolore ma collaborativo (entrambi comunque belli) e il figlio, veggente e piu' adulto dei genitori (ancora bambinetti disadattati e lungimiranti, basta!!!).
Il punto piu' debole dello script e' proprio la caratterizzazione stereotipata dei personaggi, con una protagonista mai davvero spaventata e sempre in grado, perlopiu' in modo meccanico, di uscire da situazioni senza speranza. Il percorso che Naomi Watts compie per scoprire la verita' e' infatti assai inverosimile (dal fotogramma "allungato", all'identificazione dell'isola con faro attraverso il primo libro consultato in biblioteca), ma la regia sembra occuparsi soprattutto del ritmo da imprimere al racconto, che scorre veloce ma zoppicante. Anche la messa in scena di Gore Verbinski suona il piu' delle volte fasulla, con una quotidianita' (vera anticamera della paura) che non viene mai allo scoperto, soffocata dalla patina hollywoodiana di scenografie, interpreti e situazioni. Qualche momento di tensione c'e': la prima sequenza con le due ragazzine in casa da sole (bello il dettaglio del corridoio della casa fuori fuoco con il frigorifero aperto in primo piano), il pre-finale con lo scioglimento del mistero. Ma l'insieme avrebbe potuto essere molto piu' spaventoso e coinvolgente. E' sempre discutibile la scelta tutta americana di rifare di sana pianta un film gia' funzionante. L'originale "Ringu" di Hideo Nakata (tratto dal romanzo di Suzuki Koji) e' stato infatti un grande successo in Giappone, dove ha scatenato due sequel, un prequel e una serie televisiva. Perche' copiarlo anziche' distribuirlo? Si continua a sottovalutare la capacita' del pubblico di accettare qualche cosa al di fuori degli standard, identificando la diversita' con il rifiuto. La strategia della Dreamworks si e' rivelata commercialmente vincente, ma pare celare un vuoto di idee ed una strategia, non solo economica ma anche politica, volta alla colonizzazione piuttosto che alla condivisione.

Se copi, vivi

L’anello del mistero circolare che ti riporta al punto di partenza. L’anello spezzato del legame affettivo. Il contorno di uno specchio che riflette la disperazione ma nasconde la follia che ne è la causa. Il cerchio luminoso offuscato dall’eclisse. L’ultima immagine che invade la pupilla della vittima (i carrelli-shock di Verbinski!), dopo essersi impressa esotericamente su nastro magnetico, accompagnata da violente immagini surrealiste degne di Bunuel e Dalì. La saga di "Ringu" (dello scrittore Koji Suzuki) è diventata di culto in Giappone, ha visto numerose trasposizioni su schermo (su tutte quella del 1998 di Hideo Nakata, cui la produzione si rifà direttamente) e ha popolato la mente del pubblico di nuovi fantasmi. La sua poetica dello spiazzamento è piegata alla cultura occidentale che pretende linearità e logica dove l’Oriente preferisce visionarietà ed ellissi: il Videodrome di Verbinski (che "omaggia" il Sol Levante con due dettagli: uno spot giapponese in Tv e la serie di ideogrammi nella cartella clinica della pazza), però, è un capitolo dell’orrore che guarda all’autorevolezza de L'Esorcista di Friedkin (stessa fotografia livida e dettagli "realistici", mentre il volto di Samara cita la Linda Blair indemoniata) e cerca di affrancarsi dalle tracce di genere canzonate da Craven in Scream. Il racconto è popolato di segnali premonitori, eventi paranormali, contatti psichici e maledizioni, procede come una mystery-story dove gli indizi e le sensazioni prendono corpo letteralmente, anticipando eventi futuri e testimoniando di quelli passati. La brava Naomi Watts è il detective che farà appena in tempo a sposare una causa (troppo insistita da Verbinski: l’infanzia non va abbandonata, la coppia deve maturare), per vedere tutto ribaltato da un colpo di scena che fa collimare carnefice e vittima, senso e suo oblio, famiglia da ricomporre e famiglia distrutta (il disegno del bambino). Mentre lo spettatore, disorientato, cerca di interpretare i segni della pellicola e la protagonista fa un’analisi testuale del filmato su video, Verbinski immette nelle due visioni impressionate ed impressionanti schegge che vomitano orrore e denunciano la civiltà delle immagini (la Sadako giapponese, qui Samara, è la nuova Freddy Krueger del teleschermo, medium onnipresente che ha popolato i nostri sogni). Nell’era della riproducibilità tecnica che dissimula il valore dell’originale (le fotostatiche delle vittime designate confondono i volti), Verbinski raffigura magistralmente angoscia e paura (la sequenza del cavallo impazzito, quella del pozzo, aiuto!), copia la videocassetta di Hideo Nakata e sparge nel mondo il morbo di Sadako come un’epidemia (l’invettiva contro il giornalismo fatta dal padre di Samara). Sadako (e Nakata), riconoscenti, gli salvano la vita e il cerchio, ormai seriale, si riapre.