TRAMA
Anni Cinquanta, Berlino. Michael attraversa i primi turbamenti dell’adolescenza e incontra Hanna, una trentenne con la quale comincia una relazione. Ma il passato di Hanna nasconde dei segreti.
RECENSIONI
Leggere la Storia
Daldry si cimenta ancora in un difficile adattamento: The hours era tratto da un romanzo dalla struttura complessa, con tre filoni narrativi - collegamenti impalpabili, quanto necessari – che la sceneggiatura di David Hare riusciva a restituire senza forzature, consentendo al regista di giocare sui tasti del sentimento e della commozione; per la riduzione della novella Der Vorleser [1] Daldry si rivolge ancora al grande drammaturgo inglese che si trova di fronte a un impegno non indifferente: il romanzo infatti è narrato tutto in prima persona e si fonda su una visione personale dei fatti, considerati sempre in una chiave eminentemente introspettiva; Hare, per essere chiari, ha dovuto di fatto inventarsi gran parte dei dialoghi (nel libro quasi tutti resi in forma indiretta) e decodificare in forma di scene i temi complessi di un’opera che li fa emergere quasi sempre dalle intime riflessioni del suo protagonista Michael che, adolescente, conosce per caso Hanna, una donna di trentacinque anni di cui diventa l'amante. La loro è una relazione segreta che dura mesi. Uno dei loro rituali prevede che il ragazzo legga opere letterarie a Hanna, personaggio insondabile che finisce con lo sparire misteriosamente. Otto anni dopo, diventato studente di legge, Michael assiste ai processi per i crimini di guerra nazisti e ritrova la donna sul banco degli imputati.
Il lavoro dello sceneggiatore è ancora una volta centro nevralgico del film, posto che Daldry, come in The hours, sceglie la strada della perfetta adesione alla materia e dell’attenzione al dato attoriale come principale strumento di resa degli elementi più vibranti della narrazione: Hare preferisce seguire i suoi (in)soliti percorsi di scrittura e piegare la linea cronologica del romanzo (normalmente progressiva) in distinti livelli temporali che si avvicendano, tutti debitamente segnalati dalla didascalia, riportando il regista sulla strada della narrazione frantumata del suo film precedente, ai richiami di spazio o tempo giocati ancora sul montaggio alternato (la scena di Michael nel pranzo in famiglia che dialoga con quella di sesso con Hanna; quella della vestizione di Hanna in prigione con la sequenza di Michael che si prepara per recarsi all’udienza), ma pervenendo, di contro, a esiti decisamente meno felici, non bastando, peraltro, il ricorso a due prestigiosi direttori della fotografia come Menges e Deakins (il primo ha sostituito il secondo in corso di lavorazione) per riscattare il film dalla composta confezione. Sul piano della scrittura, poi, l’ultima frazione temporale (Michael nel 1995, sulla quale il film si apre), creata ex novo, si rivela del tutto superflua nell’economia della narrazione.
La parte relativa all’incontro tra Hanna e Michael e alla gestione del loro rapporto vorrebbe tendere alla ricostruzione claustrofobica di un legame esclusivo: la creazione di un microcosmo che sembra necessario preservare dalle minacce esterne in relazione al potenziale scandalo dettato dalla giovane età di Michael, alla luce della conoscenza integrale dei fatti, assumerà un diverso peso, più significativo. Sarà la parte processuale a portare a galla ufficialmente – ma il regista, come il romanziere [2], avevano lasciato ampie tracce nel loro percorso – l’analfabetismo di Hanna (che lascia i suoi posti di lavoro ogniqualvolta raggiunga mansioni di ufficio, per lei impossibili da espletare, e che per questo motivo, all’indomani di una promozione alla Siemens, la abbandona per l’impiego di sorvegliante delle SS) e che ha maggiore forza e una discreta tensione e in cui i temi e i dilemmi etici del film vengono infine a galla: come comportarsi quando si ha un’informazione che potrebbe mutare l’esito di un processo in favore dell’imputato, se l’imputato stesso è determinato a mantenerla segreta?
Su questo interrogativo, posto al professore impersonato da Bruno Ganz (altra invenzione di Hare), si inseriscono un’altra serie di interrogativi sottaciuti, ma egualmente pregnanti: la vergogna della propria deficienza è talmente pesante, talmente obnubilante da determinare Hanna al silenzio che la condanna, ma il silenzio di Michael circa l’analfabetismo della donna non è anch’esso dettato da un medesimo senso di vergogna per aver amato una criminale? O piuttosto gioca il risentimento del giovane, che consapevolizza il potere che nella relazione la donna esercitava su di lui e si scopre in qualche modo usato nel suo ruolo di lettore (e quindi considera il loro rapporto come generato da un adescamento strumentale alla lettura – del resto Hanna in passato aveva usato allo stesso scopo le prigioniere che sorvegliava -)?
La parte successiva al processo vede Daldry muoversi sul suo terreno favorito, quello del melodramma, con la parentesi quasi distesa dell’adulto Michael che spedisce le cassette ad Hanna imprigionata e il commovente tentativo di quest’ultima di imparare a leggere e di comunicare con l’ex amante. L’asettico incontro in carcere segna definitivamente la distanza tra la donna e il mondo che l’aspetta fuori dalla prigione e determina la tragedia, il regista conducendo la storia con gelido mestiere, fidando sulla splendida interpretazione di Kate Winslet che dona al personaggio di Hanna luci, ombre e la sottile ambiguità che il ruolo richiedeva: dietro lo sguardo smarrito della donna in aula, alla richiesta di una prova calligrafica, traspare il dramma interiore, il tormento straziante che si agita nella sua mente. Né va sottovalutato il valore metaforico della carenza di Hanna, tedesca che, in quanto analfabeta non riesce a capire, non riesce a leggere la realtà, subendola (“Tu non devi chiedere perdono. Nessuno deve chiedere perdono” dice Hanna imponendo al giovane, dopo un litigio, la lettura di Guerra e pace – “Guerra e pace, ragazzo” –). Una responsabilità che ovviamente non pesa solo su coloro che furono direttamente protagonisti dell’Olocausto, ma che investe un intero popolo che, esattamente come Michael, rimuove e allontana la sua colpa, salvo dialogarvi a distanza, mantenendo un sanitario distacco e che, al momento del confronto faccia a faccia, non ha il coraggio di scendere a patti con se stesso, lasciando quella colpa sola, a marcire, giurando di provvedervi, ma essendo pronto a farlo senza sporcarsi le mani.
[1] Una precisazione sul titolo del film: The Reader (il lettore in italiano, der leser in tedesco) non restituisce pienamente il doppio senso dell’originale titolo del romanzo Der Vorleser che è colui che legge a voce alta, ma anche il lettore universitario (il lecturer inglese). Il romanzo in italiano si intitola A voce alta.
[2] Bernhard Schlink, probabilmente l’autore tedesco più tradotto al mondo, è un giurista: tutti i suoi romanzi, compresa la nota trilogia dell’investigatore Selb, raccontano storie (in cui spesso ricorrono dinamiche processuali) che si fondano su una tenace dialettica tra il tempo presente e il passato inconciliato della Germania.
Tra le righe, tra le rughe
Quello di Daldry si configura sempre di più come “cinema cosmetico”. Il naso posticcio della Kidman/Woolf si doppia nelle rughe applicate al viso della Winslet/Hanna. Al fondotinta da salotto buono che leniva le ulcerazioni tra pagina scritta e corpi frementi di The Hours si appaia in quest’ultimo lavoro una regia che incipria di un tono educatamente neutro e cautamente calligrafico, da fiction di lusso, una storia potenzialmente assai disturbante[1]. Il belletto letterario è dichiarato ed esibito. Il professore di letteratura di Michael spiega, parallelamente al nascere della sua passione per la misteriosa bigliettaia Hanna, che nella letteratura occidentale il concetto di secrecy è fondamentale e che il protagonista letterario è colui che ha delle specifiche informazioni che per motivi, a volte nobili a volte ignobili, è determinato a non svelare. Detto, fatto. Il personaggio di Hanna non devierà dalla nozione di personaggio letterario appena enunciata. L’idea di messinscena di Daldry è tutta tesa a sbrogliare ogni possibile sovrapporsi di segni, nonostante l’intrecciarsi cronologico dello script di Hare e la densità tematica (immagino) del testo di partenza: media e chiarificatrice eleganza compositiva, montaggi alternati, dialoghi didascalici, sguardo semplificatore. Le ambiguità morali sollevate dalla vicenda sono illustrate dal personaggio creato ad hoc del professore impersonato da Bruno Ganz che coinvolge i suoi studenti di diritto in un doloroso brainstorming e lì vengono in qualche modo confinate, preferendo il regista percorrere la strada del mélo pensoso dall’erotismo vagamente mortifero. Esempio illuminante della cifra espressiva del film è forse la sequenza della visita di Michael al campo di concentramento: turismo meditabondo, avvolto nel blu di una fotografia cupa ma al tempo stesso vellutante. Alla fine il personaggio controverso di Hanna ne esce martirizzato (ed ho trovato di dubbio gusto la rappresentazione della sopravvissuta ebrea interpretata da Lena Olin, ricca, colta e altera, a fronte dell’umiltà dimessa e dell’indigenza dell’ex-aguzzina), quello pavido di Michael punito dalla vita con un matrimonio fallito ma infine assolto (recupera il rapporto con la figlia, debole cornice narrativa, suggellandolo di fronte alla lapide di Hanna).
Eppure storia e personaggi cercano di far valere la loro straziata complessità quasi contro le intenzioni della stessa regia. In The Reader la Germania giovane, postbellica, intellettuale, innocente fa l’amore con la Germania adulta, ancora insanguinata della Storia recente, analfabeta, colpevole. Il rapporto è inevitabile, tormentato, vagamente incestuoso, immerso nell’ignoranza di sé e degli altri, nonostante i libri letti. Perché la vera vergogna non è l’analfabetismo nascosto da Hanna (metafora anche troppo ingombrante) quanto l’incapacità di imparare, che sconta anche Michael. Non serve a niente saper leggere (né insegnare a leggere) se non si sa interpretare il testo che si legge. L’incontro tra Hanna e Michael, alla fine della detenzione della donna, nel suo esito deludente è uno scacco atroce per entrambi: ognuno rimane un mistero per l’altro, non c’è stata nessuna redenzione, nessuna ammissione di colpa (di Hanna, ma anche di Michael). La prova della Winslet, attrice che spesso sa leggere i personaggi che interpreta meglio dei registi che la dirigono, è in questo senso davvero impressionante. Il suo sguardo accigliato e enigmatico, forando il pesante maquillage impostole, vampirizza il film e lo eleva, caricandolo di quella terribile ambiguità che la regia di Daldry cerca di sfumare nella “correttezza” formale. Hanna strabuzza gli occhi durante il processo, davvero non riesce a capire il perché di tanto agitarsi. Sua è la vergogna di sé e della propria storia, ma non della Storia. Hanna con uno sforzo commovente impara a leggere La signora col cagnolino di Cechov ma continua a non saper tradurre il mondo che la circonda. Di fronte a tale voragine morale, all’ignoranza dell’ignoranza, i libri, strumento di sopravvivenza, finiscono per trasformarsi in ultimo gradino verso la morte.
[1] La vicenda, tedesca per ambientazioni e profonde implicazioni storiche, è inoltre ammantata di un idioma inglese uniformante. Scelta commercialmente ovvia che però diventa più che discutibile (ed anche un po’ respingente) nel caso della lingua scritta, dato che si parla comunque di un’educazione alla lettura e alla scrittura in suolo germanico.
Daldry torna al cinema dopo sei anni riunendosi alla penna complessa, depressa e ostica di David Hare: lo spunto è il romanzo “A voce alta” (1995) di Bernhard Schlink, i modi sono gli stessi di The Hours fra salti temporali e pezzi di un puzzle che trovano l’incastro per significati profondi, mai retorici, sicuramente anticonvenzionali, trovando la commozione dopo passaggi di quiete sovrana sin troppo tediosa (tutta la prima parte, che s’accontenta del solo tema dell’uomo segnato per sempre da un amore passato e indulge nel rapporto “proibito” matura/minorenne non certo nuovo al cinema). Quelli di Hare sono gialli psicologici “freddi”, più distaccati/alienanti che cerebrali. Le sue storie d’amore sono sempre prigioni soffocanti. Daldry lo controbilancia con un cinema che sa (anche) scaldare il cuore (vedi Billy Elliot): da quando l’opera, in modo inatteso, affronta gli orrori del campo di concentramento, si palesano finalmente le allegorie del testo, perché La Morte non sa Leggere e non c’è essere umano da demonizzare, è l’ignoranza generalizzata il motore della follia, per quanto gli orrori commessi non vengano certo giustificati. Temi coraggiosi, importanti, inusitati che rivelano ancor di più l’imperfezione della pellicola che, involontariamente, trova tempi morti durante la passione amorosa e la passione solo quando parla di morti. Dedicato ai produttori Anthony Minghella e Sydney Pollack, scomparsi prima dell’uscita del film.