TRAMA
Saigon 1952. Thomas Fowler fa il cronista di guerra, Phuong è la sua giovane amante, Alden Pyle arriva in missione umanitaria ma nasconde un segreto.
RECENSIONI
Timido colpetto d’ala nella controversa filmografia di Phillip Noyce, che si scrive con due elle (Ore 10: calma piatta, ma anche, purtroppo, Il santo, Il collezionista di ossa…). Dall'omonimo romanzo di Graham Greene, un'opera sul Vietnam diversa dalle altre: gli americani non si rotolano (ancora) nella polvere, francesi e comunisti sbrogliano tra loro la matassa, l’ombra della terza forza striscia con sanguinaria prepotenza. Se l’apertura offre il consueto rimando a Viale del tramonto (monologo interiore di cadavere galleggiante), il dosaggio si ferma dalle parti di Eros kai Thanatos mescolando la violenza dell’Amore a quella della Guerra, con sano menefreghismo e senza curarsi di accessori quali continuità e coerenza. Parliamoci chiaro: tutto si risolve nella dura requisitoria contro l’imperialismo americano, più o meno diretta (Noi raccontiamo soltanto le vittorie, confessa candidamente un cronista yankee) - ognuno elabori come più gli piace la metafora sulla nostra attualità -, ma il film è leggibile quanto scoppiettante: contro ogni previsione, oltre il significato a verbale, si tratta di una rappresentazione inferocita di interni sgualciti, locali fumosi e stormi di prostitute (ricostruzione di Roger Ford e costumi di Norma Moriceau) dove l’oppio incontra furtivamente lo scotch, Caine è un livido spettro azzoppato. Noyce manovra un vivace processo di accumulazione fino all’ultima curva, l’immancabile incedere della morte, dove pesca una sequenza tecnicamente memorabile: un’autobomba sbrana il cuore di Saigon (di Kabul, di Baghdad, di Tel Aviv…) in un concitato en plen air di macerie e sangue, sotto l’ombra ghignante della vendetta.