TRAMA
Quando la notizia della morte della Principessa Diana si diffonde tra una popolazione britannica scioccata e incredula, la Regina Elisabetta si ritira nel castello di Balmoral con la sua famiglia, incapace di comprendere la reazione alla tragedia. Per Toby Blair, il popolare neoeletto Primo Ministro, è tangibile il bisogno della gente di essere rassicurata e supportata da parte dei propri leader. Mentre questa ondata di emozioni senza precedenti cresce sempre di più, Blair deve trovare un modo per riavvicinare la regina al suo popolo.
RECENSIONI
Stephen Frears è un regista prolifico e discontinuo. Dopo il modesto Lady Henderson presenta c'era da temere il peggio al cospetto, nientepopodimeno che, della Regina Elisabetta d'Inghilterra. Invece il miracolo si compie e la difficile materia diventa un film di grande finezza. La sfida appare ardua: parlare di un personaggio popolarissimo, e tuttora vivente, partendo dalla tragica morte della chiacchieratissima principessa Diana. Il rischio è di ferire la sensibilità di chi ha vissuto il dramma in prima persona traviando la realtà. Una realtà che, ovviamente, è sconosciuta ai più, visto che al di là del visibile (in pratica tutto ciò che i media sono riusciti ad accaparrarsi) è tutto basato su un punto di vista per forza di cose soggettivo. Invece, lo splendido copione di Peter Morgan (giustamente premiato al Festival di Venezia insieme alla sublime protagonista Helen Mirren), è molto attento ad alternare, con estrema leggerezza e acume, i fatti oggettivi con una personale interpretazione. La regia di Frears coadiuva perfettamente la sceneggiatura, avvicendando nella fiction immagini di repertorio con finte immagini di repertorio, finendo per dare vita a una realtà altra perfettamente credibile. Tra le varie licenze narrative, non stona nemmeno la figura metaforica del cervo in libertà, incontrato nei boschi, a cui la regina consiglia la fuga, che senza bisogno di parole esplicita con felice intuizione la comprensione nei confronti dell'irrequietezza di Lady Diana da parte di una donna che ha anteposto, con ferrea volontà, la corona a qualsiasi pulsione. Molto riuscita anche la figura conflittuale di Tony Blair, verso il nuovo e lo svecchiamento delle istituzioni, ma ancorato a un punto di vista nonostante tutto ancora conservatore. Se la sceneggiatura non perde un colpo, ricca di dialoghi sferzanti in grado di riassumere complicati stati d'animo con una battuta, anche il cast non è da meno. Il rischio di un baraccone grottesco e caricaturale, basato sull'imitazione, era molto grande, invece, pur nella somiglianza fisica, Helen Mirren e Michael Sheen smettono di essere attori che imitano la vita e diventano la Regina Elisabetta e Tony Blair.
L'incarnazione per antonomasia della Tradizione da un lato, il promesso riformatore appena uscito vincitore dalle elezioni politiche dall'altro. Nel mezzo, la "principessa del popolo", idolo delle masse, eroina che ha vissuto per e grazie ai mezzi di comunicazione di massa i suoi anni di gloria. Le onde mediatiche si infrangono sulla facciata principale della residenza estiva della regina prima destandola, poi irrigidendola, infine spingendola ad un cedimento dotato di una sua eroica tragicità. Come aggiornare un'istituzione plurisecolare per "rispondere" all'esigenza di partecipare, come attori, al grande spettacolo delle esequie, per non morire simbolicamente a causa della morte di altri? Come superare l'impasse, l'afasia di chi vive ed è consapevole di vivere fuori del mondo nel momento in cui si percepisce di essere stati scalzati, nei cuori dei propri sudditi, da una star mitizzata e moderna, figlia del proprio tempo? La monarchia è moribonda, la regina drammaticamente bloccata sul letto di un ruscello di cattive novelle mediatiche. Paradossalmente, per salvarsi e preservare la monarchia, occorre un sacrificio, sacrificio di cui la Madre degli inglesi coglie l'assoluta necessità osservando il cadavere di un cervo appena ucciso. Grazie ad uno straordinario lavoro di scrittura, un mélange quasi scespiriano di dramma e commedia satirica, Frears firma uno dei suoi film più compatti e riusciti, un concentrato di finezze psicologiche - in pochi tratti, alternando scene di letto a rituali pubblici, la regina diventa un personaggio di una statura quasi tragica -, simboliche, di grandi interpretazioni (la Mirren è immensa, ma anche il resto del cast è all'altezza). Con intuizioni visive e di montaggio non banali (ottima la commistione di fiction e non fiction), Frears riesce a coinvolgere lo spettatore in un discorso insieme morale e “politico”, proprio perché carica senza pedanteria e con un'abilità prodigiosa l'evento più pernicioso che abbia visto coinvolta la regnante di valori ulteriori, riflettendo più in generale sul rapporto tra i rituali perpetuati dalla storia, i valori di un tempo ed il presente, il sistema di comunicazione di massa, il grande spettacolo della vita e dei corpi dati in pasto ad un pubblico onnivoro ed acritico, disposto a versare lacrime a (tele)comando e ad uccidere idealmente le Madri
L'avvicinamento definitivo tra la regina e Tony Blair, suggellato dalla "rottura" del protocollo e dalla finale passeggiata nei giardini di Buckingham Palace, è addirittura commovente, così come straziante è la lettura dei messaggi offensivi a lei destinati nel mare di fiori accatastati davanti ai cancelli della sua residenza.
La forza del film di Frears è tutta nello script di Peter Morgan che, con acuto senso della verosimiglianza, dopo un attento studio delle fonti e un lavoro di accurata ricostruzione, riesce a far convivere in maniera a tratti sorprendente l'approccio realistico con il pamphlet; non importerà neanche allo spettatore più malizioso sapere quanta verità ci sia in questi supposti retroscena: la faccenda narrativamente funziona, e funziona dall'inizio alla fine. Frears ritrova la sua vena migliore (si guardi al modo in cui risolve l'episodio dell'incidente di Diana), sfrutta al meglio tutti gli spunti, usa con misura e intelligenza i filmati di repertorio, vira in sontuosa sit-com alcuni siparietti di vita quotidiana a Buckingham Palace (sarà pure quella Reale, ma i Windsor rimangono una famiglia), fa acida ironia sul governo attuale (Blair ne esce maluccio) e anche se alcuni eccessi di lirismo (l'episodio del cervo) creano squilibrio - in unopera per altri versi compatta - non arrivano mai a intaccarne l'esito.
Il cast è tutto da amare, ma la Mirren, che si è affidata alle cure di un coach per impostare la voce secondo il registro richiesto (ma noi italiani ce la becchiamo doppiata) e che verrà ricoperta di sacrosanti allori, è a dir poco superlativa nella parte di una Elisabetta splendidamente disegnata: luci e ombre; arcignità e debolezze; donna straordinaria ma figura inspiegabile ad occhi non inglesi - penetrata a fondo, com'è, nell'inconscio del suo popolo -; tormentata dal macigno del suo ruolo e dalla necessità contingente di prescinderne; moglie, madre e nonna, autoritaria soprattutto con i suoi cani, in evidente rapporto freudiano col primo ministro - se la Regina fu all'epoca la figlia di Churchill, è stata poi la moglie degli altri premier e infine la madre di Blair -. Chi si aspettava dall'arrabbiato regista dei film antithatcheriani degli anni 80 un attacco verticale alla Corona rimarrà sorpreso dalla complessità con la quale, nella generale leggerezza dei toni, la questione della reazione ufficiale della Casata alla morte di Diana e il relativo conflitto tra l'anacronistico formalismo dei Reali e la moderna impostazione del fresco eletto Blair, viene affrontata (il contrasto viene reso anche cinematograficamente: tutte le scene con la famiglia reale sono girate in un classico 35 mm mentre quelle fuori dal palazzo in 16 mm e camera a mano). In fondo pare difficile dar torto alla regina madre - personaggio impagabile che sembra uscito dalla penna di Wodehouse -: se loro, i membri della Famiglia, sembrano vittime folli di un protocollo infrangibile (ma hanno secoli di rigorosissima tradizione sulle spalle e un'etichetta che li ingabbia e, in ultima analisi, li giustifica), allora milioni di persone che sfilano con una candela in mano per omaggiare Diana cosa sono? A dire: i Windsor saranno anche fuori dai tempi, ma la gente è fuori di testa.
Lo sciocco circo mediatico che fin da subito aveva circondato la storia di Diana Spencer, le sue vicende sentimentali e mondane da soap opera, e di cui lei godette ogni lusinga fino a un momento prima di morire (il regista mette spietatamente in contrappunto la fatale fuga dai giornalisti col tripudio d'immagini che l'aveva preceduta per oltre quindici anni), lievitò con la morte di lei in un fenomeno di isteria e di lutto collettivi. Esso poté stupire i cultori di un'immagine del popolo britannico – tutto contegno e undeveloped heart – risalente più o meno al ritratto che Forster ne aveva fatto all'epoca edoardiana, e colse di sorpresa la Corona, che per un'interminabile settimana volle attenersi all'etichetta tradizionale (funerali privati, nessun intervento commemorativo da parte della famiglia reale) resistendo alle pressioni emotive della folla. Dietro gli insistenti suggerimenti del governo laburista neonato sotto la stella allora luminosa di Anthony Blair, la Regina si convinse a scendere presso il suo popolo, per condividerne o fingere di condividerne la triste emozione.
Abbiamo ripercorso quegli eventi per sottolineare come la prospettiva da cui muove Frears sembri la più opportuna a evitare fastidiose cadute nel melodramma funebre. Innanzitutto, il lacrimatoio viene cacciato dalla porta insieme ai principini, che compaiono brevemente solo come comparse; poi, la commozione di Carlo di fronte al corpo della madre dei suoi figli viene osservata con rapida discrezione; infine, il dolore collettivo viene inquadrato sempre col filtro della comunicazione di massa e di quella sua particolare sottospecie che è l'azione politica.
Ed è appunto questa la prospettiva che guida l'analisi del regista: la morte di Diana, l'esagitazione popolare, i tentativi del premier e del principe di Galles di piegare la sovrana a miti consigli, e infine il cedimento di Elisabetta la quale comprende, contro le resistenze dell'ottuso marito e della regina madre, di dover compiere un gesto simbolico per recuperare la fiducia del popolo nella monarchia; tutti questi passaggi sono episodi o fasi di una strategia comunicativa, dove la sincerità di ciò che si manifesta è l'ultima cosa che conti. Significativamente, l'unico momento di sincero sperdimento, forse di autentico dolore, è riservato non alla folla vociante o al manovriero e ghignante primo ministro, né alla sua acida e arrogante consorte, ma proprio a Elisabetta; ma è un momento di totale solitudine, non vi sono occhi di telecamere a spiarla né famigliari o sudditi o famigli a beneficio dei quali comporre un volto turbato dall'emozione.
Ci sono una battuta chiave e un momento decisivo, nel film guidato con solido mestiere e con dosi consistenti di humour e impertinenza che non risparmiano nessuna delle parti in causa, ma lasciando che l'immensa Helen Mirren domini la scena con la sua sottigliezza d'interprete e la sua fenomenale capacità mimetica. La frase è rivolta alla regina quando lei ancora insiste nel rifiuto di accondiscendere alle richieste emotive dei sudditi: “E il pubblico, maestà? Il popolo britannico?”. Il momento è quello in cui, durante la passeggiata della regina tra gli omaggi floreali che il popolo ha riservato a Diana, una bambina offre a Elisabetta dei fiori: il gesto scioglie la diffidenza pubblica verso la sovrana, che ha deciso di mostrarsi all'altezza di una società avida “di glamour e di lacrime”. Da un lato l'implicita richiesta di accettare la riduzione dell'augusto ruolo alle regole dell'intrattenimento televisivo, dall'altro la raggiunta consapevolezza che quel gioco retorico è meglio condurlo, abbandonando una parte dell'antica alterezza, che subirlo.
Non c'è dubbio che la strana alleanza fra il piacione e modernista Blair e la matura e conservatrice regina riesca vittoriosa: lui è espressione genuina d'una potente rivoluzione culturale, che ha trionfato senza rumore, lei vi si adegua con sofferta intelligenza (come mostra la loro conversazione finale): quel movimento allettante che ha sconfitto la retorica della politica e dell'etichetta, e vi ha sostituito una retorica della vita e della performance totali. Diana è morta, viva la Regina!