TRAMA
A un’adolescente lesbica in Indiana viene proibito di partecipare al ballo della scuola. In suo aiuto accorrono quattro star di Broadway.
RECENSIONI
Più Ryan Murphy di così si muore? Su carta - lucida & scintillante: quella del musical originale di Bob Martin & Chad Beguelin, anche sceneggiatori - The Prom è terreno d’elezione per l’affaccendato regista di Indianapolis in missione per conto di Netflix: un campo ideale da infarcire con tematiche e caratteri riconoscibilissimi, da fertilizzare con le istanze che caratterizzano la sua agency autorale. Pure con l’opportunità di ridersi un po’ addosso, dato che tutto parte dalla megalomania affamata di validazione (critica e di pubblico) da parte di icone queer (dentro e fuori la finzione: Dee Dee/Meryl Streep, Angie/Nicole Kidman). Le quali, per scampare al viale del tramonto delle paillette, sfrenano l’agenda liberal in scroscianti brani empowering sul palcoscenico di un liceo spadroneggiato dalla bigotta PTA (l’associazione genitori-insegnanti), in principio strumentalizzando (poi subentrano la compartecipazione e lo sdegno di fronte a crudeli sgambetti) il caso/la causa da bufera social di turno, che ha l’innocenza acqua e sapone e il sorriso drewbarrymoriano dell’esordiente Jo Ellen Pellman.
L’umanità dietro le quinte dello star system, tutta irresistibile egolatria (It’s Not About Me) e esuberanza camp in odor d’autoparodia (The Acceptance Song), incrociata con l’immaginario teen tra palpiti amorosi - segreti perché non conformi all’eteronormativa (Dance with You) - e desiderio d’affermazione identitaria (Unruly Heart), à la Glee, con pennellate citazioniste (Zazz), potrebbero addirittura fare di questa musical comedy un compendio dei leitmotiv murphyani, in tonalità cosmicamente feel-good. Ma è proprio a questa membrana di luccicante, rintronato ben-essere (e ben-finire) che The Prom si riduce: non c’è esplorazione del discorso sull’ipocrisia delle filantrope star a riflesso di quella dell’industria engagé che ben conosciamo, né i ripetuti happy ending senza misura fanno della loro esplosione finzionale di gioiose (ri)conciliazioni un megafono sulla difficoltà a replicarle nel reale (come con il revisionismo utopistico di Hollywood); e nemmeno i numeri musicali sfiorano la portata lunare e programmaticamente artificiosa di un The Name Game (squarcio inquietante sulla faccia robotica e l’ipnosi forzata da musical nel magnifico American Horror Story: Asylum).
A conti fatti, i 130 minuti di The Prom sono una cavalcata di appariscenti scene madri, gustose e spumeggianti (come si dice) ma in ultimo fini a se stesse, buone ciascuna per essere il momento topico, il clou di un singolo film, ma che, così affastellate, sprigionano un’energia posticcia che ciondola fra l’autoconsapevolezza e l’eccesso imbonitorio, mentre ogni membro del cast d’oro sembra giocare un campionato esclusivamente egoriferito, dalla divina Meryl al cucciolone James Corden. Con l’eccezione di Andrew Rannells, il solo a rimanere nella misura, mai totalmente cartoonesco-macchiettistica, del suo Trent (e infatti è lui a destreggiarsi nel miglior segmento del film, Love Thy Neighbor). La bandiera progressista coloratissima ed esclamativa regista e personaggi la sventolano dall’incipit fino (soprattutto) alla trionfale conclusione volemosebbenissimo, ma seppur a questa totalizzante fusione edificante si arrivi preparati da una dichiarazione d’amore e d’indipendenza dell’arte, salvagente escapista dall’imbruttimento della vita (We Look to You), The Prom quasi se ne serve più come una giustificazione per il proprio mantenersi impigrito sulla superficie patinata e sfolgorante di un palco che, a differenza di quello calcato da Dee Dee, scolora rapidamente dalla memoria una volta usciti dal cinema - pardon, una volta spento Netflix.
