
TRAMA
Ascesa e caduta di Lance Armstrong, ciclista americano arrivato in Europa alla fine degli anni Novanta con una struttura fisica inadatta a scalare i lunghi pendii del Tour de France, ma una determinazione assoluta a vincere a ogni costo. Dopo aver superato la sofferenza e la paura di un cancro ai testicoli, Armstrong torna in poco tempo a correre e a vincere grazie a un programma basato su un regolare trattamento di trasfusioni di epo e testosterone e su un intero castello di bugie ai media e al ciclismo internazionale.
RECENSIONI
The Program è una specie di punto interrogativo: non esattamente un film diretto con la mano sinistra da un regista affermato; forse più propriamente un oggetto pensato con poca cura, quasi come se i suoi autori andassero di fretta. Se da un lato il film risulta infatti perfettamente godibile, ritmato e interessante sul piano dei contenuti (l’infame vicenda del “campione” Lance Armstrong), dall’altro è difficile non notare difetti evidenti, perfino grossolani, difficilmente riconducibili al classico cinema di Frears.
Probabilmente l’imputato principale è la sceneggiatura, frettolosa e poco attenta ai dettagli, ai mezzi toni, alle sfumature emotive dei personaggi. È affascinante pensare che la velocità del film rimandi alla velocità delle corse ciclistiche, ma il dato di fatto è che The Program è un film tagliato con l’accetta. Se nello svolgimento centrale le cose sembrano andare meglio, è nelle fasi cruciali di inizio e fine film che risentiamo maggiormente di questo difetto. Entro i primi 15 (20?) minuti ci viene introdotto il personaggio di Armstrong giovane, il suo primo Tour de France, il primo incontro con le sostanze dopanti, la diagnosi di un cancro al testicolo, la degenza, la ripresa. Troppo e troppo veloce? Il finale è ancora più sbrigativo: la progressione fra la rivelazione pubblica della truffa, la completa negazione delle colpe e la confessione in diretta tv è sviluppata nella manciata di pochi minuti, alienando così ogni possibilità di effettivo impatto emotivo o di indignazione sul pubblico.
In questo modo, tutte le tensioni etiche e drammatiche rimangono superficiali e meramente descrittive. Ne risente così anche la caratterizzazione del personaggio Lance Armstrong, un Faust sportivo che vende l’anima al diavolo, insensibile alla truffa e unicamente affamato di vittoria: luciferino, amorale, spietato, ma anche totalmente piatto. Quello di Armstrong è un personaggio senza evoluzione, che ci viene mostrato come maligno imperterrito dall’inizio alla fine, senza che nulla ci faccia intuire i perché, le motivazioni profonde, eventuali ripensamenti, riflessioni. Emerge solo una personalità fortemente egocentrica segnata da un bisogno patologico di vincere, ma nel film nulla analizza o indaga da cosa nasca questo suo istinto compulsivo. D'altronde, anche la sua vita privata fuori dalla sfera sportiva è solo vagamente tratteggiata: un matrimonio che dura la velocità di qualche frame e nulla più. Frears sembra tentare il possibile per correggere il tiro, utilizzando con frequenza primi piani sul volto di Armstrong/Ben Foster per ricercare quelle sfumature che la sceneggiatura non riesce ad offrire. Ma forse proprio perché assenti sulla carta, queste sfumature difficilmente vengono messe in luce, nonostante la buona performance attoriale di un Ben Foster decisamente in forma. Se il personaggio di Michele Ferrari, il medico indagato per aver somministrato le sostanze dopanti ad Armstrong, è interpretato in maniera fin troppo sopra le righe da Guillaume Canet e soffre anch’esso di una sostanziale mancanza di profondità, più riuscito è quello di Floyd Landis, compagno di squadra che infine smaschera la truffa di Armstrong. Questo personaggio risulta più interessante perché più ambiguo, unico nell’intero film a conoscere una vera evoluzione: da collega sottomesso a vendicatore, non tanto per spirito etico quanto per vendetta e rancore.
Sicuramente un film sul dilemma morale dell’onestà, indagato come già detto senza sfumature né contradditorio, ma nella mente di Frears The Program vuole essere soprattutto una riflessione sul falso e sul vero, immagine pubblica contro immagine privata, avvicinando il film a precedenti prove del regista, The Queen in primis. È questo risvolto che salva in extremis il film, quella capacità di far riflettere sulla santificazione mediatica di un personaggio oscuro. E poi il ritmo che, nonostante i difetti, ci accompagna senza rallentamenti né stanchezze lungo una vicenda che ha dell’incredibile. Un biopic al fulmicotone che alla fine dei conti ti sei divertito a guardare. Forse meglio sul divano di casa davanti alla tv che nel buio di una sala?
