Drammatico, Netflix, Recensione, Sperimentale

THE OTHER SIDE OF THE WIND

Titolo OriginaleThe Other Side of the Wind
Nazione Francia, Iran, U.S.A.
Anno Produzione1976
Durata122'
Sceneggiatura
Anno di produzione1970 - 2018
Fotografia

TRAMA

Jake Hannaford torna a Hollywood, dopo alcuni anni di esilio in Europa, per girare il suo nuovo film, The Other Side of the Wind. Mancano ancora diverse riprese ma i soldi sono finiti e il giovane protagonista, John Dale, lascia il set per sparire nel nulla. L’amica di una vita, Zarah Valeska, organizza una festa per i settant’anni di Hannaford, che è anche l’occasione per mostrare il film a giornalisti e personaggi del cinema. Tutto verrà filmato, nulla rimarrà off-the-record. L’uscita dei lavoratori del cinema dagli Studios è la prima sequenza, inaugurale come un omaggio ai Lumière, di un viaggio lungo una notte, che approderà alle luci dell’alba in un drive-in, e oltre.

RECENSIONI


PREMESSA – UN FILM DI ORSON WELLES (?)


Nei primi minuti di The Other Side Of The Wind succede (quasi) tutto. Il meccanismo che disvela la struttura dell’opera viene enunciato dalla voice-over di Brooks Otterlake, regista di successo e (presunto) amico del defunto cineasta Jake Hannaford, il quale, commentando l’incidente mortale di quest’ultimo (processo tipicamente wellesiano: l’inizio è già la fine), rivela di aver assemblato materiale audiovisivo realizzato da alcuni cineoperatori durante l’ultima festa di Hannaford (riprese “amatoriali” in 16mm e 8mm), avvenuta molti decenni fa, “prima dell’avvento dei cellulari e delle immagini computerizzate”.  Il party, che celebrava il settantesimo compleanno di Jake, è stato teatro della proiezione del suo ultimo lavoro, “The Other Side Of The Wind”. Nel corso del prologo, è facile riconoscere il doppio salto mortale che ci porta oltre la cornice stessa del film: Brooks Otterlake è interpretato dal regista Peter Bogdanovich, autore di spicco della generazione di cineasti della New-Hollywood. Bogdanovich, con l’ausilio del produttore e regista Frank Marshall, ha ricomposto in quattro anni di lavoro (dal 2014 al 2018) l’ultimo progetto di Orson Welles, iniziato nel 1970 e mai portato a termine, con l’intento di “onorare e rispettare la visione” (così si dice nella presentazione iniziale) del lavoro che il geniale cineasta aveva parzialmente completato. Il titolo, The Other Side Of The Wind, corrisponde, nella finzione, a quello dell’opera realizzata da Jake Hannaford (il doppio di Welles, interpretato da John Huston), morto (suicida?) la notte del 2 luglio, la stessa data in cui Ernest Hemingway (il personaggio di Hannaford è chiaramente ispirato a lui) si tolse la vita.  La premessa del film serve a inquadrare tutto quello che nel procedimento di Welles è superfluo, illusorio, evanescente: il dispositivo che ne inghiotte altri e che, di conseguenza, fagocita anche le immagini che tutti i personaggi del film faticosamente costruiscono su loro stessi, non costituisce l’interesse principale del film. Semmai, al cineasta americano interessa porre l’accento sul senso ultimo dell’atto creativo che, in questo caso, si mostra come atto puro, libero cioè da qualsiasi condizionamento, stilistico o produttivo che sia.

“CHE COSA STO GUARDANDO?”

Uno dei momenti decisivi dell’opera è l’incontro tra il produttore del film, un tale di nome Max, e un assistente di Hannaford, Billy Boyle, durante la proiezione privata di una parte del film “The Other Side Of The Wind”. La pellicola scorre e vediamo una donna in mezzo al deserto, interpretata da Oja Kodar, che cammina nel quadro da sinistra a destra mentre, in profondità di campo, l’attore John Dale è sdraiato sulla sua motocicletta, in compagnia di altri due motociclisti, a contemplare il passaggio di questa dea ieratica. Oja Kodar, vestita di nero, entra in una cabina telefonica e compone un numero sull’apparecchio; nel frattempo, John Dale si avvicina alla cabina e il suo volto si riflette sul vetro di quest’ultima. I due si guardano per un istante, prima che Kodar termini la telefonata ed esca per salire su un’automobile pronta a condurla chissà dove.
“Che cosa sto guardando?” chiede il produttore, mentre sullo schermo vediamo John Dale sfrecciare sulla sua motocicletta.  Poco dopo, la donna sosta davanti a un grattacielo i cui vetri riflettono la sua immagine. Lentamente, arriva presso di lei John Dale e i riflessi dei loro volti si avvicinano per qualche istante. Uno stacco ci porta in una galleria, dove a fotogrammi accelerati vediamo John Dale in motocicletta mentre “insegue” Oja Kodar; Billy Boyle cerca di rassicurare il perplesso Max: “Non è ancora un montaggio definitivo”, afferma. “Ma cosa sta succedendo?”, incalza Max; “Forse qui è dove lascia la bomba”, risponde Billy cercando di configurare una (im)possibile narrazione.  La donna entra nel grattacielo e John Dale la segue; uno stacco ci mostra l’attore in primo piano frontale che osserva alcuni giocattoli meccanici e, poco dopo, Oja Kodar passa dietro le spalle dell’attore il quale, dopo essersi voltato, riprende a seguire la donna.  “È una criminale?” domanda il produttore, e Billy risponde: “È una specie di radicale, il ragazzo pensa che stia guardando delle bambole”. La situazione è ovviamente demenziale: nessuno dei due riesce veramente a seguire il flusso delle (splendide) immagini. John Dale esce dal palazzo con un pacco rosa in mano, e Max si chiede cosa ci sia dentro; come possiamo immaginare, non esiste risposta. Il produttore, frustrato, chiede di leggere il copione e, finalmente, Billy rivela l’unica grande verità sulla quale poggia tutta la struttura dell’opera: non esiste un copione, Jake inventa tutto mano a mano che si procede.
In questo senso, la sovrapposizione di Welles sul personaggio di Hannaford è totale: il cinema si compie e si manifesta, sullo schermo e nella finzione, come creazione immediata, come atto che si sviluppa oltre ogni condizionamento e impedimento, come variazione continua sul tema della perdita, della caduta infinita.

GIANO BIFRONTE

The Other Side Of The Wind è, sostanzialmente, un Giano Bifronte: da una parte, abbiamo la pellicola di Jake Hannaford, ovvero la trasmissione filmica diretta del desiderio, dei suoi movimenti e delle sue traiettorie, tentativo estremo di annullamento della distanza tra filmante e filmato, o tra linguaggio e sentimento (“Se alla cinepresa non piace un attore, lo inquadra e basta”, afferma Billy Boyle).
Il resto dell’opera, al contrario, è una raccolta di decine di “punti macchina” differenti sulla figura di Hannaford: all’interno del suo ranch brulicano giornalisti, documentaristi, collaboratori, fan e scrittori che cercano di carpire, invano, i segreti e i retroscena della sua vita, senza riuscire a trovare una sintesi a tutti i racconti possibili. Ovviamente, la presenza di molte m.d.p. modifica la percezione stessa dei presenti, i quali sono ovviamente consapevoli di essere, di fronte all’obiettivo, non più corpi ma pura immagine, e tutto questo non fa che alimentare il gioco delle parti e il meccanismo della finzione a oltranza. Anche lo statuto di genio/demiurgo che caratterizza il personaggio di Hannaford (Brooks Otterlake, rivolgendosi a lui con l’appellativo di “Skipper”, sottolinea il parallelo con Hemingway) sembra essere pura illusione, e questo lo si intuisce dalla risposta del produttore Max alla succitata battuta di Billy Boyle: “e se all’attore non piace il regista, cosa succede?”. La grande assenza di John Dale, attore sparito dal set e dall’universo di Jake, vuoto rimarcato dall’inquietante presenza di un gruppo di manichini che lo raffigurano, è in qualche modo il riflesso del fallimento sentimentale/artistico del regista, che ha ormai perso il controllo sia del film sia del proprio mondo emotivo/identitario.  Infatti, dai vari racconti, emerge che John Dale fu in qualche modo scoperto, e salvato dalla perdizione, da Hannaford stesso. “Dale si dimenava come un pesce nella rete”, afferma Hannaford (l’immaginario marinaresco, come si può facilmente intuire, continua a dominare), che poi prosegue: “Abbiamo fatto il possibile. L’abbiamo tenuto sullo yacht come mozzo, l’abbiamo reso marinaio, o almeno ci abbiamo provato. Certo che l’ho salvato, e continuo a farlo”. Il rapporto tra i due sembra andare oltre la relazione meramente professionale, evocando un possibile coinvolgimento sentimentale da parte del vecchio cineasta, ormai totalmente incapace di gestire e governare le sorti del film.
L’implosione di Hannaford è enfatizzata dalla presenza di Brooks Otterlake, figura sempre più opprimente e ingombrante mano a mano che il film procede. Un tempo accolito e ammiratore di Jake (ha raccolto per anni materiali e interviste per un libro celebrativo, ovviamente mai pubblicato), Otterlake ha superato il maestro al Box-Office e si fa interprete di una nuova generazione di cineasti destinata a spazzare via la vecchia Hollywood. Non è un caso che la scelta di Welles sia caduta proprio su Peter Bogdanovich, autore che nel 1971 ottenne un grande successo con The Last Picture Show.

MASCHERE


Venendo meno la pletora di maschere, identità, storie vere e false che circondano Jake Hannaford, ciò che resta oltre la chiacchiera è proprio il disvelamento del sé che emerge dalla sua opera, unico e straordinario atto di libertà autentica e, probabilmente, l’estensione più veritiera del suo universo interiore.
La dissonanza tra le due anime del film, infatti, è segnata proprio dal rapporto che corre tra soggetto e oggetto filmico o, meglio, dallo scontro tra la volontà di rappresentazione (e definizione) della vita e la vita stessa.
Si può arrivare infine, a inquadrare l’enigma Hannaford/Orson Welles? Il suo anelito, la sua visione integrale e fuori dal tempo? Posta in questi termini, la questione entra in conflitto con la pulsione scopica frammentata degli osservatori, i quali, pur fisicamente vicini, restano irrimediabilmente a distanza in quanto mere estensioni di un dispositivo. In questo senso, Hannaford è come uno schermo: di per sé, la sua figura imponente non racconta nulla, ma diventa superficie riflettente di molteplici visioni che si traducono, né più né meno, nelle immagini che lo spettatore riceve.