BIENNALE CHANNEL, Drammatico

THE MOUNTAIN

TRAMA

Nell’America degli anni Cinquanta, un giovane introverso si unisce a un famoso lobotomista che promuove la propria procedura, la cui validità è stata da poco smentita. Durante le visite agli ospedali psichiatrici, il giovane comincia a identificarsi con i pazienti, in particolare con la figlia di un carismatico leader del nascente movimento New Age nelle regioni dell’Ovest.

RECENSIONI

La storia di Andy, il giovane che segue il medico che ha operato la madre (ci si riferisce alla figura storica del dottor Walter Freeman) in un vero e proprio tour della lobotomia (metafora di un’epoca - e di un sesso - passivamente piegata all’autorità) è proposta da Alverson nei termini di una dissezione cosciente della messa in scena della vicenda: lo strabordante formalismo, la composizione dell’inquadratura - geometrica, innaturale -, le scene come miniature curatissime, la riduzione della narrazione a immagini che si vogliono affermare come tali (il protagonista che scatta la foto a un angolo vuoto) sottintendono una modellizzazione e una conseguente messa tra parentesi della finzione.
Così la montagna del titolo non c’è, ne vediamo solo l’effigie ritratta su un quadro. E Jack, il personaggio-didascalia interpretato da Denis Lavant, conferma l’assunto affermando, magrittianamente, che quella al muro non è la montagna («Ceci n’est pas une montagne»), ma solo la sua immagine. Non c’è alcuna montagna, allora: La Montagna è il film che stiamo guardando.
Anche il ruolo del protagonista, quello di fotografo, sottolinea questo aspetto, con la riduzione dei traumi, dei complessi che constata (e di cui lui stesso è portatore) alla fissità glaciale di un’istantanea. Quello col padre è stato esso stesso un conflitto di immagini (la stanza foderata di foto pornografiche) che continuano a ossessionarlo.
Così The Mountain è insieme opera teorica e traduzione di questa teoria in rigorosa operazione di stile, con tanto di citazione dei fotografi dell’epoca, ipnotici meccanismi coreografici (la danza su ghiaccio), in cui il racconto è letteralmente narcotizzato, respinto ai margini. Apatico. Se per Wally/Jeff Goldblum «a volte la cosa migliore per le famiglie è restituire il paziente in uno stato innocuo», allo stesso modo Alverson lobotomizza la vicenda, la rende innocua e racconta di come in un film l’unica realtà che esiste è la sua proiezione su uno schermo, laddove la rappresentazione spadroneggia con piani fissi, sipari catatonici, colori desaturati, pura gestualità, tableau vivant (la sala operatoria come la Lezione di anatomia del dottor Tulp di Rembrandt). E un formato, il 4:3, che non è solo il rapporto d’aspetto del vecchio tubo catodico (a ribadire l’operazione di recupero di un immaginario d’epoca), ma anche una scelta ostruttiva che sembra voler deliberatamente contraddire quella consueta dei film commerciali, che chiedono e ottengono l’immedesimazione del pubblico. Se si narra di lobotomia, un procedimento di aberrante sbrigatività su una realtà problematica che richiedeva tutt’altro approccio, anche il film pretende dallo spettatore uno sforzo in più, quello di non cedere alla tentazione della semplificazione, del frettoloso disfarsi di un’opera respingente, della riduzione a uno della complessità dei segni di cui è portatrice. A guardare bene anche i due precedenti del regista, The Comedy (2012) ed Entertainment (2015), operavano una lucida analisi del genere commedia: lo destrutturavano, ci ragionavano sopra, prima ancora di applicarlo. Anche i video musicali si risolvono in riflessioni sul linguaggio. Nell’ultimo da lui girato, Animals, dirompente azzardo per Oneohtrix Point Never (capolavoro - ne scrissi nello speciale dei video dell’anno -), il corpo di Val Kilmer è pura, presenzialistica materia divistica che scansa il tema e si afferma come mero, riconoscibile segno.

Anche in The Mountain Alverson costruisce un’opera che dialoga, con chi guarda, soprattutto a livello sensoriale: i dialoghi ridotti all’osso, i silenzi prolungati, l’enigmaticità dei personaggi, l’imperscrutabilità dell’intreccio, l’uniformità del registro visivo, le sonorizzazioni di Daniel Lopatin/ Oneohtrix Point Never, la scansione delle scene deprivata di qualsiasi drammaticità, sfiancano qualsiasi tentativo logico e portano lo spettatore in una dimensione altra, in cui solo l’immagine conta.
Allora, lamentarsi, come si è fatto, che in questo film il racconto langue, è paradossale: se uno dei riferimenti chiave è il quadro di Magritte Le trahison des images, di inganno delle immagini bisognava ragionare, del fatto che realtà e linguaggio non combaciano, di una lucida strategia di destabilizzazione del pubblico. In questo senso The Mountain  [1] è il film più radicale della mostra veneziana 2018, il più cosciente non solo del suo portato concettuale, ma della sua stessa drasticità. Perché ha il coraggio di accettare il possibile fraintendimento che potrebbe causare in chi lo guarda e la temerarietà di proporre una visione esperienziale non succube dello standard illusorio, ma al contrario, costantemente cosciente del suo artificio: perché il film non fa altro che autodichiararsi, statuendo, per l’appunto, che non c’è nessuna montagna, solo la sua immagine; non c’è alcuna lobotomia, solo la sua evocazione; non c’è nessun dolore perché (come dice Jack) l’Arte non può restituirlo.

[1] Persino il titolo pare rispondere a una strategia magrittiana. « I titoli sono scelti in modo che impediscano di situare i quadri in una regione familiare che l’automatismo del pensiero non mancherà di provare a creare pur di sottrarsi all’inquietudine» scrisse l'artista belga.
Si guardi anche il poster del film, si noti lo stridore magrittiano tra l'immagine e il titolo.