TRAMA
Alaska: nella base di una compagnia petrolifera, l’esperto di impatto ambientale Hoffmann registra un inusuale innalzamento della temperatura che mette a repentaglio la permanenza del perma-frost. Pare, inoltre, che dei gas nocivi per la psiche vengano liberati dal sottosuolo…
RECENSIONI
Uscito nel 2006, The Last Winter chiude l’ipotetica tetralogia horror di Fessenden dopo No Telling (1991), Habit (1995) e Wendigo (2001). Con la sola, parziale eccezione di Habit, che era un vampire movie urbano à la Abel Ferrara, non è difficile stabilire una forte continuità tra i film del regista: si tratta di horror sghembi, attenti alla caratterizzazione dei personaggi, dove il deterioramento dei rapporti umani e sentimentali tra i protagonisti si interseca con le derive incubomorfe della vicenda, nei quali la Natura – meglio, “la vendetta” della stessa – gioco un ruolo primario e una buona dose di apparente ingenuità pseudo-lynchiana inquieta le carte in tavola. In particolare, se No Telling si presentava come una rilettura del mito di Frankenstein in chiave bucolica, Wendigo e The Last Winter sono linkati da un robusto filo rosso che li lega alla stregua di sequel/prequel: la figura del Wendigo, cara alla tradizione pellerossa nordamericana, e il tema della punizione inflitta “dallo spirito di madre terra” all’uomo per le sue malefatte.
Se avete istintivamente alzato un sopracciglio, pronti a snobbare The Last Winter per manifesta banalità, sentite questa: il tema centrale del film è il riscaldamento globale. Che ve ne pare, adesso? Eppure, l’ultima fatica di Fessenden è, quantomeno, lo spot ambientalista più obliquo e arty mai girato insieme all’omologo (ma successivo) E venne il giorno, per non parlare del fatto che si tratta di un Horror/Suspenser perfettamente funzionante nelle sue dinamiche di film di genere che sposa e insieme divorzia dal genere. I campi lunghissimi su un Alaska abbacinante e metafisico, con le figure umane affogate nel bianco, gli inediti (per Fessenden) movimenti di macchina sinuosi e avvolgenti, con Dolly vertiginosi e Travelling mai gratuiti, la caratterizzazione precisa ma parzialmente ellittica delle psicologie, l’insinuarsi lento e progressivo del perturbante, l’esplosione del soprannaturale che non perde mai definitivamente l’aggancio col reale (le creature wendigiane - rappresentate con una CGI imbarazzante - potrebbero essere partorite dalle menti disturbate dei personaggi) fino al finale apocalittico imploso e misterioso, tutto contribuisce a delineare un film personale (fessendeniano?), che riesce a evadere, di volta in volta, dalla casella nella quale lo si vorrebbe – momentaneamente - collocare. Smarcandosi anche dalle citazioni più telefonate e apparentemente evidenti (La cosa, che però è tutt’altra “cosa”).
Nota di particolare merito va al già accennato finale, sineddoche del film tutto, nel quale si conciliano l’epica del “solito finale catastrofico” con il fascino della polisemia e dell’ambiguità, grazie a una regia che tradisce volontariamente le aspettative spettatoriali: un lento movimento di macchina a salire sulla protagonista di spalle, sorta di soggettiva metaforica, si fa sempre più verticale ma non allarga, come ci si aspetterebbe, rimanendo sulla figura intera con un’inquadratura asfittica, relegando più o meno tutto in fuoricampo e lasciando il solo sonoro a suggerire l’armageddon in pieno svolgimento. Nero, titoli di coda.

Ovvero Wendigo 2 (horror cult low-budget dello stesso autore), con atmosfera tesa, cupa e misteriosa dove gli stati alterati dei personaggi non dichiarano la veridicità dell’orrore o delle manifestazioni soprannaturali, mentre il regista canta la rivolta della Natura contro il progresso distruttivo dell’uomo. I protagonisti hanno visioni di “fantasmi fossili” per cui è pronta anche la spiegazione più scientifica (sono dovuti ai gas liberati dalle trivelle, custoditi in un substrato congelato per diecimila anni) e Fessenden ha talento nelle suggestioni procurate dal montaggio (scene brevi, dettagli, dialoghi non in sincrono con il rappresentato), nel selezionare sguardi sulla natura che affascinano e al contempo inquietano. Un La Cosa senza “la cosa” che pare ambire alle atmosfere di 2001: Odissea nello Spazio (la scena del giovane ammutolito davanti al monolite-scatola bianca rinvenuto nel nulla), con umori, “segnali” allucinati che entrano sottopelle: il problema arriva con le spiegazioni, pur restando il film abbastanza ambiguo. Da un lato era meglio non dare alcuna interpretazione razionale agli eventi, dall’altro ridurre ancor di più le visioni fantastiche: l’ambiguità finisce per riguardare due sole categorie (naturale/soprannaturale), quando poteva disancorarsi da tutto moltiplicando i riferimenti. La situazione peggiora quando l’opera urla le sue tesi ecologiste.
