TRAMA
Dopo quasi cinquant’anni di matrimonio, la Contessa Sofa, devota moglie di Leo Tolstoj, scopre improvvisamente che tutto il suo mondo va gambe all’aria. In nome della sua nuova religione utopica e delle sue idee anarco-cristiane, il grande romanziere russo ha rinunciato al titolo nobiliare e alle sue proprietà per diventare povero, vegetariano e celibee potrebbe inoltre essere stato convinto da Chertkov, il suo discepolo, a lasciare i diritti dei suoi iconici racconti al popolo russo anziché alla famiglia. Con ogni stratagemma, la donna lotta ferocemente contro la comunità libertaria che si è installata in casa sua per quel che ritiene le appartenga. Allontanata da Tolstoj riuscirà a rivederlo solo in punto di morte, nell’ultima stazione.
RECENSIONI
Hoffman racconta gli ultimi mesi di vita del conte Tolstoj dagli occhi del giovane segretario Valentin Bulgakov in una romanza grossolana costruita su contrasti paralleli, siano essi tra personaggi o tra atmosfere, di carattere emotivo o politico, che si risolvono in sé stessi, non facendo parte di una costruzione più ampia; è come se il regista ci facesse entrare in un mondo in cui tutti non fanno altro che litigare con tutti, in un susseguirsi di scene madri (di cui sembra esserci una qualche consapevolezza: impagabile la battuta di Tolstoj alla moglie: « Sofia, tu non hai bisogno di un marito, ma di un coro greco! ») che paiono formare un meccanismo chiuso per cui quello che conta è la lotta e non chi la fa. Si allude all'opposizione tra due epoche e due modi di vedere la vita: l'Ottocento, aristocratico e liberale, che la contessa vede sparire attorno a sé, roso fino ai ricordi più intimi (si pensi a Guerra e pace, da lei vissuta nella sua lunga lavorazione come una cosa di famiglia e vista poi consegnata a un'umanità astratta e impersonale) dalle inquietudini egualitarie del nuovo secolo; si allude all'opposizione tra un uomo e una donna, compagni inseparabili per cinquant'anni, irrigiditisi entro punti di vista incompatibili, o a quella tra il rigore intransigente dei tolstojani che sembra quasi prefigurare il regime di pochi decenni più avanti, e l'apertura libera e gioiosa di Valentin e Masha; tuttavia che cosa si voglia raccontare non è affatto chiaro e Hoffman non si decide mai a imboccare una direzione precisa in senso narrativo più che ideologico (la sua posizione nel dibattito sulla fine di Tolstoj è in maniera chiara in favore della contessa). Trascuratezza: la stessa evidente nella ricostruzione storica, mediocre al punto che si tende sempre a immaginarsi, se non fosse per i baffetti di Chertkov, così tipici, che il protagonista sia un eccentrico lord inglese. La Russia, insomma, è lontana mille miglia, anche cinematograficamente: non c'è nessuno sforzo visivo di rappresentare un'atmosfera in realtà così diversa dalle campagne dello Yorkshire e la confezione è la stessa del tipico film in costume britannico. I pochi momenti in cui The last station dimostra una qualche sensibilità sono dovuti al talento della Mirren, premiata come migliore attrice al Festival di Roma.