TRAMA
West Texas: lo sceriffo Lou, apparentemente gentile e disponibile, nasconde una natura criminale.
RECENSIONI
Il percorso cinematografico di Michael Winterbottom è da sempre caratterizzato da un eclettismo estremo al punto da sembrare programmatico e che lo rende sfuggente a qualsiasi tentativo di esaustiva classificazione: partito con alcuni film di basso budget prodotti dalla televisione, ottenuta una giustificata attenzione con Butterfly kiss, aspra parabola in cui già si evidenziava la crudezza del tratto, mai smentita da un autore che, qualunque filone abbia frequentato, non ha mai abdicato alla necessità di una rappresentazione realistica, ha in seguito battuto, con mano più o meno felice, strade molto differenti, rivelando un occhio molto versatile e una vocazione classica per il racconto: ecco allora le strane divagazioni nei generi, dai ritratti veristici made in UK Go now, Wonderland e With or without you, in cui dramma e commedia si alternano, alla fosca riduzione di un classico di Thomas Hardy, Jude, tragedia nera e soffocante, di rara forza espressiva, che va annoverata tra i suoi esiti migliori; ecco i film legati all’attualità: opere ibride, non di rado zoppicanti, apertamente politiche, figlie illegittime di una predisposizione al documentario più volte messa in pratica (Benvenuti a Sarajevo, Cose di questo mondo, Un cuore grande, Genova); ecco il suo potente kolossal, Le bianche tracce della vita, secondo adattamento di un romanzo di Hardy e probabile vertice della sua produzione; ancora: l’applicazione understatement del modello science-fiction (Code 46), il musical/hardcore 9 songs e l’impossibile trattamento del Tristram Shandy, il teorico A cock and bully story, esercizio acutissimo che narra di una troupe che sta girando un adattamento del romanzo: la narrazione, attraverso una riflessione che coinvolge lo stesso mezzo cinematografico (con espliciti tentativi in chiave kubrickiana, greenawayana etc), proprio come il romanzo, si perde in mille divagazioni sancendo nei fatti l’irriducibilità del capolavoro sterniano.
The killer inside me, progetto passato da Andrew Dominik (che sognava Di Caprio protagonista) nelle mani dell'inglese (ma c'è una letteratura sui tentativi di realizzazione che hanno coinvolto, dagli anni 50 ai giorni nostri, numerosi cineasti), riavvicina Winterbottom alla crime story (I want you è il suo precedente in materia) trattandosi dell'adattamento di un romanzo di Jim Thompson, già portato sullo schermo negli anni 70 da Burt Kennedy, opera letteraria contestatissima all'epoca della sua uscita e oggi considerata un classico, oltre che un prodromo significativo della letteratura pulp.
Il film manifesta piena adesione ai canoni del noir (i bei titoli ci avevano avvertito), mettendo in secondo piano l'elemento poliziesco-procedurale per indulgere nella constatazione del dato umano, dal punto di osservazione del criminale: seguendo la sua ortodossa predisposizione all'azione, Winterbottom ci mostra con occhio glaciale il percorso tutto esteriore di un protagonista che, pur parlando in voice over, non fornisce alcuna chiave di lettura al suo comportamento (anzi, le sue parole lo rendono ancora meno chiaro e intellegibile), lasciando nel vago i riferimenti a un'infanzia traumatica e non cedendo alla tentazione della facile didascalia in chiave psicologica; apparentemente gentile e onesto, Lou rivela nei fatti una predisposizione alla violenza che, suggerita all'inizio da un paio di episodi (la reazione nei confronti della prostituta, l'episodio del sigaro con l'ubriacone che poi lo ricatterà), esplode chiara e cristallina, rivelando l'uomo come uno spietato assassino che consuma i suoi delitti secondo una prassi implacabile. Attorno al protagonista ruota il mondo della provincia texana, un'umanità intrappolata in una meschina rete di invidie, rivalità e sospetti reciproci, un ambiente corrotto di cui Lou, tutore della legge, rappresenta un'avanguardia impazzita, certo, ma sintomatica.
In un intreccio dove la menzogna impera ad ogni livello, la spietata determinazione di Lou si mette in scena con una violenza mai filtrata (si vedano i pestaggi delle due donne, di una brutalità tanto diretta quanto insostenibile) e la lucidità del suo personaggio ne amplifica l’impatto. La riflessione sull’impossibilità di decodificare una realtà - che si fonda sulla presa d’atto del conflitto tra la sua apparenza, placida e perbenista, e la sua essenza, multiforme e ambigua (Più vi frequento, meno vi capisco), in cui la cortesia e la cordialità che contraddistinguono il comportamento e il linguaggio dei personaggi (I appreciate ripetuto come un mantra) sono codici che velano cinismo, ipocrisia o una fredda determinazione al male (quella di Lou, che lascia dietro di sé una scia di morti, direttamente o indirettamente provocate) - si manifesta attraverso dettagli e sequenze feroci con i quali l’autore non ha alcun timore di sporcare una cornice molto curata e controllata.
Winterbottom come al solito dimostra una grande attenzione per il tratteggio dei personaggi e per le interpretazioni: cominciando dal protagonista, uno straordinario Casey Affleck che svolge un lavoro sorprendente sulla voce (si lasci perdere il doppiaggio: Winterbottom sollecita tutto il cast ad una recitazione vecchio stile, di percepibile maniera, che è dato rimarchevole e imprescindibile dalla visione) e che gestisce l’ambivalenza di Lou con la padronanza del grande attore che ancora una volta dimostra di essere, per passare ai veterani Tom Bower e Ned Beatty, senza dimenticare Jessica Alba, Elias Koteas e Kate Hudson, tutti estremamente efficaci, fino al breve cameo di uno svaporatissimo Bill Pullman.
Presentato alla Berlinale e al Sundance Festival.