Biografico, Recensione

THE IRON LADY

Titolo OriginaleThe Iron Lady
NazioneU.K., Francia
Anno Produzione2011
Durata105'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Margaret Thatcher oggi: la Lady di ferro si confronta col suo passato. Le fa compagnia il defunto marito.

RECENSIONI

Streep è Attrice Totale e basta quel minuto iniziale (la protagonista al market compra il latte) a dimostrarlo. Quando un attore è davvero grande? Quando non lo vedi, quando si annulla nel suo personaggio: in quella scena vediamo - ed è un piccolo choc - l'ex premier inglese, puramente e semplicemente; quei pochi secondi in strada che seguono, poi - con la donna sotto l'ombrello, la sagoma ricurva, coperta dall'impermeabile, un po' smarrita -, sembrano quasi rubati dal vero. E' un inizio forte e straniante, a suo modo bello. Questo per dire che, al di là di ogni considerazione sull'opera, la performance mimetica della Nostra (e vederla in originale, con quella voce che da sempre si piega a qualsiasi accento, è più che doveroso) non è un esercizio di gigioneria, non è un numerillo, non è una baracconata ad effetto, è la solita interpretazione marca Streep: meravigliosamente sfumata, mai un tono fuori posto, perfettamente funzionale al film. Ah sì, perché c'è un film.

The Iron Lady parte dal presente: Margaret Thatcher è una vecchina oramai svanita che, di fronte all’incombenza di dar via gli abiti del marito defunto da anni, si trova nella necessità di fare pulizia tra le vecchie cose. Il consorte in realtà abita quella casa anche da morto perché Maggie lo vede ancora, ci parla, ci litiga, ne è anche ossessionata. Il rovistare negli armadi e tra i cassetti è - grande metafora - un più profondo scartabellare nella propria memoria e nella propria coscienza: ecco allora partire i debiti flashback che ricostruiscono il cammino della protagonista. L’idea è proprio quella del rimbalzo continuo e motivato dal presente al passato: rapita suo malgrado dall’ansia rivisitativa, la Lady di Ferro, persa nella sua nebbia visionaria, ci dà dentro anche di foto ingiallite e vecchi filmini familiari che fanno prendere l’abbrivio a squarci di vita illustrata di Maggie figlia, moglie, madre e, soprattutto, politica.

Ma il carattere della figura è trattato basicamente, banalmente ripiegato sull’andante per il quale Thatcher si è da subito emancipata (il padre, figura decisiva) e non ha mai pensato che il suo ruolo in casa fosse quello di lavare le tazze da tè: su questa base didascalica elementare il film inanella le sue stazioni biografiche, con disinvolta pochezza e senza lo straccio di un’idea, senza dare una sostanza e una continuità al discorso, senza costruire personaggi accanto alla protagonista (se si eccettua il fantasma mentale del marito, suo interlocutore privilegiato). E che non ci si rifugi nella facile scappatoia per la quale ciò che vediamo restituisce alla lettera la confusione senile della protagonista (ben altro piglio sarebbe servito) dal momento che la regista un tentativo minimo di ricostruzione storica lo compie, ricorrendo anche a filmati di repertorio e a qualche elemento informativo di supporto; niente da fare: la figura della protagonista continua a stagliarsi su uno sfondo ineluttabilmente sfocato, vago, incerto - l’epoca ritratta, le congiunture e gli eventi decisivi – e  a rimanere essa stessa abbozzo anodino, personaggio dalle motivazioni sconosciute e dai tormenti imperscrutabili.

E qui si arriva al punto: cosa mai è questo film? Come opera biografica non funziona (troppo superficiale, approssimativa, disinteressata all'essenza del personaggio), come grottesco non ha mordente (gli stinti duetti tra moglie e marito immaginario sono troppo marginali e pretestuosi per dare carattere alla pellicola), come tragedia scespiriana (l'ha detto, coraggiosa, la regista) è risibile (l'ex leader che lotta coi fantasmi del passato? Ma andiamo'), come riflessione sulla vecchiaia è banale (il Grande, alla fine della vita, piccolo come ognuno di noi), come camp biopic alla Russell (è evidente che a Phyllida Lloyd importi molto più documentare le diverse fasi del look della Signora che le tappe della sua carriera) si ferma al timido accenno (i colori primari che scintillano nel passato, il presente avvolto in una grigia cortina'). Se si aggiunge una regia sciatta (il pur gradevole Mamma mia! ci aveva già detto tutto in proposito), prona di fronte alla Diva, non si può che concludere che  The Iron Lady è proprio quello che appare: un film limpidamente costruito sulla sua protagonista (Meryl Streep come autrice dei film che interpreta), strutturato per siparietti, gag e piccoli monologhi creati per il Suo puro e semplice sollazzo, la celebrazione del Suo talento, il tramandarne il medaglione con l'effigie alle generazioni da venire.
Se n'è preso atto, avanti il prossimo.

Fa specie non poter scrivere bene di una pellicola in cui Meryl Streep, protagonista assoluta, offre una prova attoriale meravigliosa (soprattutto in originale, imita la statista alla perfezione), diretta dalla regista del fortunato Mamma Mia. Ma qualcosa non convince: il testo della drammaturga Abi Morgan e la regia mancano di un punto di vista, il risultato è vacuo e ricorda i ritratti dei leader di Sokurov, con l’enorme differenza che quest’ultimo invoca la Poesia e l’Arte per rappresentare l’inconsistenza del Potere, mentre Morgan e Lloyd ripiegano più opportunisticamente sul compromesso (lo dicono le reazioni dei partigiani all’uscita del film: i liberal hanno lamentato un profilo troppo umano, i conservatori lo hanno letto come un insulto). Fuori e dentro il film, è paradossale se si pensa che la Lady di Ferro ritratta possedeva almeno una qualità, la coerenza delle sue convinzioni senza accomodamenti: certo sparare sulla Croce Rossa sarebbe stato troppo facile (Ken Loach cecchino ideale) ma raccontare, come fa il film, brandelli della politica del Primo Ministro inglese, prima donna occidentale al governo, partendo dalla sua vecchiaia solitaria, inducendo a pietà per l’amore verso i figli e il marito perduto, insistendo sulla debolezza che ha vuoti di memoria, è un ricatto per far passare in sordina i metodi conservatori discutibilissimi. Phyllida Lloyd non è (e non vuole essere, pavida) Oliver Stone che, in Nixon e W., è riuscito ad entrare nel corpo del Male per poi restituirne la fragilità. Del resto, non ha neppure il coraggio di restituire alla Storia un ritratto del tutto elegiaco che, se ben argomentato, poteva essere più accettabile: è palese che il testo cerchi, da un lato, di corroborare l’opportunità delle decisioni impopolari della protagonista, soprattutto attraverso massime di vita inoppugnabili che la guidavano, ma glissa più che può, lancia il sasso per poi ritirare la mano, andando sempre a rifugiarsi nel calore del talamo della vecchiaia, senza affondare, preferendo l’elegia del corpo che si consuma a quella del personaggio pubblico. Ha ragione, allora, la Thatcher: i suoi successori non hanno le palle. Lei non avrebbe mai iniziato una guerra senza affondare il nemico (nelle Falkland).