TRAMA
Iraq: una squadra speciale antimina ha il compito di disinnescare ordigni inesplosi. Quando il nuovo sergente James assume il comando dell’unità speciale nel bel mezzo di un violento conflitto, sorprende i due sottoposti, Sanborn e Elridge, lanciandosi inesorabilmente in un gioco mortale di guerriglia urbana. James sembra indifferente alla morte. Mentre i soldati lottano per controllare la follia del loro nuovo capo, in città esplode il caos e salta fuori il vero carattere di James, cambiando ogni uomo per sempre.
RECENSIONI
È stato erroneamente recepito come un film sulla guerra in Irak, in realtà l’opera di Kathryn Bigelow ha come sfondo la guerra in Irak ma si occupa più degli aspetti psicologici sottesi a qualunque conflitto. La didascalia iniziale, al riguardo, è molto chiara: "la furia della battaglia provoca dipendenza totale perché la guerra è una droga". La citazione, tratta da un libro scritto da Chris Edgar, giornalista del New York Times vincitore del Premio Pulitzer, fa riferimento alla ricerca di adrenalina che, accompagnata alla sicurezza economica, spinge un uomo ad abbandonare la sua vita, gli affetti, le comodità, per abbracciare gli inevitabili disagi di una guerra. Andare sul campo di battaglia, indossare una divisa, eseguire e ricevere ordini, sparare, vedere morire e rischiare costantemente di morire. Una routine distruttiva che finisce per creare assuefazione al dolore e dipendenza dal pericolo. I protagonisti sono militari addestrati per disinnescare bombe, un lavoro molto delicato e ad alto tasso di mortalità. La sceneggiatura di Mark Boal, apprezzato giornalista che ha lavorato al seguito delle truppe in Iraq, deriva da una profonda conoscenza acquisita direttamente sul campo, seguendo quotidianamente i soldati nelle missioni operative. Il film non si preoccupa di fornire risposte, viene intelligentemente dato per scontato che ognuno abbia le sue, ma pone domande che di solito vengono date per scontate. Il fatto che lo sfondo sia quello di un conflitto contemporaneo, e quindi bruciante per i possibili risvolti interpretativi, rischia di confondere le acque, perché può dare l'idea di una mancata presa di posizione della regista, di un suo disinteressarsi a torti e ragioni, di mostrare solo un lato della medaglia (gli iracheni sono per lo più ombre indistinte) attraverso caratteri tutto sommato abbastanza convenzionali (l'emotivo, il bullo, il razionale). Il fatto è che tutti questi aspetti non sono il centro del film, ma ne determinano solo il perimetro. Il merito della Bigelow è quello di costruire scene di battaglia credibili pervase da una tensione costante ponendo l’attenzione sull’introspezione dei personaggi. Sul piano visivo non inventa nulla, ma mette la sua solida professionalità al servizio del racconto mostrando ciò che forse è all'origine di tutte le forme di prevaricazione: un insondabile connubio di pulsioni in cui dinamiche autodistruttive spingono a spostare sempre più in avanti il proprio limite. Ogni nuova vittoria non rassicura, ma pone le basi per una ennesima sfida, come se il sopravvivere fosse una colpa da sottoporre a ulteriori prove. Come se l'essenza della vita fosse racchiusa nell'adrenalina generata dall'insicurezza. Può sembrare un'interpretazione riduttiva, poco esaustiva rispetto alla complessità del film e alla perizia con cui le scene di azione (forse troppe) sono state minuziosamente girate, ma è di questo che sembra voler parlare Kathryn Bigelow, non della guerra in Iraq, e il fatto che il film non abbia un’etica forte è più che altro un problema di aspettative da parte di chi guarda.
Nel finale di The Hurt Locker si alza il tono metaforico: il civile inginocchiato e il sergente James sono entrambi uomini-bomba. L’uno a livello materiale, l’altro ideale; ormai lo si è capito, James non può vivere senza disinnescare. Il film di Kathryn Bigelow è un ordigno bifronte, da una parte la detonazione immediata e dall’altra un denso polverone figurato. Più che le sovrapposizioni narrative (come la netta “sostituzione del figlio” con un bimbo iracheno), a risultare decisivi sono gli accostamenti visivi; in cerca del contatto diretto con il rischio, James si fa precedere dal lancio di un fumogeno bianco che sprigiona esattamente la stessa nebbia dell’esplosione: vuole anticiparsi, implicitamente già desidera il boato che otterrà nel finale. Il medesimo trattamento di inconsce proiezioni è applicato a ogni personaggio: Elridge, marchiato dalla morte del superiore, è afflitto dall’atavico timore di fare la stessa fine; Sanborn si autoinganna e solo infine ammette l’aspirazione alla paternità. In generale, The Hurt Locker è durissimo da vedere – sequenze thriller e tensione insopportabile: i primi dieci minuti ci scoppiano addosso, graniti di terra e imperlati di sangue – e ancora più duro da raccontare, perché punta forte sulle affermazioni negative; oltre alla tripartizione dei protagonisti, davvero di scarsa importanza (uno è ferito, l’altro torna a casa, il terzo sceglie la guerra), bisogna dunque ascoltare ciò che viene taciuto: l’origine delle cicatrici di James, la sua ostinazione paradossale sulle sorti di uno sconosciuto, il grigiore privato di Sanborn appena celato dai modi di circostanza (“Se muoio non se ne accorge nessuno”). E soprattutto l’ultimo dialogo: la riflessione sull’indole deviata del sergente è una contro-scena madre, dato che i soldati si interrogano a lungo, azzardano ipotesi e non trovano risposta. “Non ci penso”, dice James: la regista ha sfrattato il messaggio dall’Iraq in fiamme, tutti restano segnati solo dall’aderenza al pericolo che prima avevano respinto. Ovvero, come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba.
Terre aride lontane minacciosamente sconosciute diventano territori di conquista e presidio per via di imperativi selvaggi dettati da un potere che si è (im)posto da sé, un’autoctisi kafkiana che giustifica se stessa e il proprio agire con il semplice postulato dell’esistenza, di un esserci per e con la forza, i cui corollari sulla presunta difesa di una libertà e una democrazia si ergono a dimostrazione del senso del non-senso della guerra, almeno di quella guerra. Uomini programmati per lo sbaraglio, addetti all’assurdo della morte si offrono allo sguardo feroce e tuttavia (ancora) incredulo di altri uomini che si vedono costretti per ius naturalis (il giurista Carl Schmitt lo designerebbe come il nomos della terra ovvero il diritto che un determinato spazio geografico legato a un determinato contesto socio-antropologico ha a non lasciarsi invadere) a fronteggiare le continue invasioni di campo e che a quel sentimento di aggredita incredulità rispondono generando altrettanta incredulità mediante azioni irriconoscibili all’occhio occidentale che non esita a definire atroci. Ma gli intenti mistificatori della guerra statunitense in Iraq sono noti, così come tutte le derive e gli interrogativi aperti da questo sanguinoso prolungato scenario, dunque appare subito evidente che a Kathryn Bigelow non interessano le retoriche - per quanto alcune di esse sacrosante - reinnescate inesorabilmente come ordigni mediatici nel terreno argomentativo della guerra in Iraq. The Hurt Locker è l’ennesimo lucido dolentissimo sguardo sulla (ri)programmazione del soldato americano, un jarhead in cui è stata strumentalmente travasata una cultura non più sua, una mitologia nella quale non può più riconoscersi, semplicemente perché l’America non è più un Paese per vecchi rincoglioniti dall’ideale della superpotenza, dalla sur-esaltazione della battaglia per cui ogni sferragliare di pala d’elicottero dovrebbe risuonare come una stockhauseniana disfonia elettrificata, non è più quella reinventata dai falsi ideali figli dell’ipocrisia dei Bush, i McCain e le Palin di turno. The Hurt Locker è una splendida tragica radiografia della confusione e dell’incultura, nella quale a ogni militare di stanza in quei luoghi viene proditoriamente inculcato il mito dell’eroe di guerra, del soldato che come un cowboy dei good old times deve incestuosamente ingravidare col suo seme la madre terra per farsi dare nuove genìe (significative le sequenze iniziali con Guy Pearce che per disinnescare un ordigno sembra che espleti un atto sessuale), estirpandola da tutto ciò che può nuocere a una nuova genesi (abitanti autoctoni e bombe compresi). Vengono riprogrammati anche nuovi oggetti del desiderio dunque, sui quali misurare volontà di potenza indotte, seduzioni preconfezionate. Meglio testare la propria virilità penetrando l’interno (dell’ “infedeltà”) di una bomba per disinnescarla che tornare a riesplorare le sicure cavità del monotono oggetto vaginale delle mogli imprigionate nell’eterna attesa dell’eroe, fedeli e felici nel poterli riabbracciare nei supermarket i cui prodotti multinazionali sono salvaguardati dalle vite di questi mariti della guerra. Irrinunciabile provocazione cronenberghiana che si annuncia anche nel desiderio di manomissione all’interno del corpo-bomba del ragazzo. L’onnipotenza del cowboy solitario è però una inevitabile corsa (o una camminata, come quella finale) al massacro in cui la Bigelow, riprendendo la radicalità di Redacted, riattiva il discorso depalmiano sulla critica dell’immagine, sulla strumentalizzazione del (non)mostrabile e sulla desoggettivizzazione del guardare. In The Hurt Locker il montaggio è in realtà uno smontaggio che nell’allucinata frammentazione del reale offerta nella pluralità delle angolazioni e dei dettagli visivi (le strade, le case, le automobili, gli animali, gli iracheni testimoni dell’accadere) decostruisce il senso di unità e probabilmente di aderenza tra (presunto) soggetto e azione, tra pulsione scopica e suo oggetto (l’artificiere non vuole più mediazioni - il robot - tra sé e la bomba). L’immagine così frantumata rappresenta nello stesso tempo la somma e la differenza dei punti di vista, e la soggettiva di partenza del disinnescatore calato nello scafandro viene a perdersi nel differimento (anche temporale) della sua azione, rappresentazione decomposta di una realtà che proprio nel momento in cui sembra potersi oggettivare nella certezza del campo lungo (e comunque sempre in una distanza), smarrisce le sue coordinate in una miriade di frammenti diseguali, come in un découpage cubista, per ridisegnarsi e ricomporsi in qualche modo in unico (?) sguardo frattale che è quello indistinto del cinema, che guarda malinconicamente l’incedere di questo cowboy fuori tempo massimo nella sospensione del suo credersi lì e contemporaneamente altrove, un po’ come il Kirk Douglas di Solo sotto le stelle che in mezzo alla carreggiata affollata di luci d’automobili, solo col suo cavallo, crede di essere ancora su una collina del Missouri, come su un territorio lunare arido e desolato dove da astronauta può sognare nuove vergini terre di conquista, fino al tragico risveglio di un’esplosione.
Dopo Redacted, senza dimenticare il contemporaneo Stop-Loss di Kimberly Peirce, anche Kathryn Bigelow racconta la guerra in Iraq con i modi del cinema da reportage, fra camera a mano e zoom improvvisi. Ma è meno interessata alla teoria del linguaggio e più, come tutto il suo cinema, all’adrenalina, stando ad altezza (non “con” il) soldato, usando l’azione come enunciazione del sottotesto (sull’orrore della guerra, sull’apatia di militari dipendenti dalla droga del pericolo): più che altrove (vedi Strange Days), riesce a filmare in modo “distaccato”, senza commenti, fino a subire il fascino malato del suo protagonista artificiere (il carisma del “drogato” di adrenalina è una costante del suo cinema, vedi Point Break). La drammaturgia procede per episodi/missioni, la tensione si costruisce con le immagini, il montaggio, le idee stilistiche: è magistrale, ad esempio, il modo in cui restituisce l’isolamento dei soldati che salvano i civili ma non ottengono da loro nessuno sguardo amichevole, tutt’al più indifferenza e curiosità, e spesso il passante dall’aspetto più innocente si rivela quello più fatale. Peccato che, nella seconda parte, invece di “crescere” con nuovi elementi in campo, il film non faccia che ripetere la prima scena (per quanto meravigliosa) all’infinito, con una parte finale in cui “l’eroe” tipico bigelowiano cambia lo spettro delle proprie emozioni, sente la “guerra” in modo meno narcotizzato e aumenta le propensioni all’eroismo (corto circuito: il film è talmente realistico e così poco hollywoodiano che l’eroismo pare solo follia). Tutto vero: le scene si basano sui reportage pubblicati su Playboy dal fidanzato giornalista della regista, Mark Boal, che seguì le vicissitudini di questi artificieri a Baghdad (ricostruita ad Amman, in Giordania) sconsideratamente volontari. “Hurt locker” è un termine sportivo che indica il limite massimo del dolore. Ignorato dal pubblico alla sua uscita europea nel 2008, il film ha fatto incetta di Oscar l’anno successivo.