Azione, Drammatico

THE HUNTED

Titolo OriginaleThe Hunted
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2003
Durata94'
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Un marine addestrato ad uccidere impazzisce e semina di cadaveri il bosco dove si è rifugiato. Il suo ex-istruttore gli darà la caccia come ad un animale, finchè non lo avrà neutralizzato una volta per tutte.

RECENSIONI

William Friedkin è uno di quei registi che si amano o si odiano. Difficilmente, e mai all’unanimità, è considerato un autore. Eppure è uno di quei registi che quando li vedi al cinema li riconosci subito. Questo, perché Friedkin, nella sua lunga e altalenante carriera, ha dimostrato di avere, se non uno stile, una fortissima personalità. Una di quelle che si esprimono prima di tutto in una poetica capace di ridistribuirsi omogeneamente anche attraverso il continuo travaso di generi cui Friedkin ha sottoposto il suo cinema, e poi in una tecnica consapevolmente cristallizzata nonostante l'avvicendamento oltre che di generi anche di mezzi (televisione, cinema). The Hunted, incarna proprio questo senso di continuità che suscita così spesso il cinema di Friedkin, per due motivi soprattutto: perché insieme al precedente film (Regole d'onore) forma la pariglia sulla riflessione delle conseguenze della guerra sull'uomo, con lo stesso protagonista in un ruolo simile (Tommy Lee Jones) e le medesime conclusioni; dall'altra perché ripropone i capisaldi della poetica del regista dell'Esorcista, ovvero: l'importanza fattuale del vedere per venire a capo della relatività del bene e del male, l'incapacità di prescindere comunque da un'impostazione manichea, e la necessità di schierarsi non secondo un principio etico ma vitalistico. Sarebbe inutile chiedere a Friedkin da quale parte sia schierato. La domanda non ha senso quando si professa, più che una scelta, un'adesione incondizionata: un po’ come la barzelletta del cowboy che chiede ai musicisti quale dei due generi di musica fanno: country o western? Quando sei nel Big Country o sei un cowboy o sei contro i cowboy (e sappiamo tutti che fine hanno fatto gli amerindi). Questo è Friedkin, questo è il paese che ha sempre (de)cantato dal Braccio violento della legge a The Hunted. Friedkin è un regista che rappresenta l'unica America che conosce: quella degli americani alla conquista di un territorio conteso (poliziotti che si disputano la città con la malavita, preti in lotta per il possesso di un corpo, soldati alla conquista di un territorio), e se fosse un cantante il suo paese lo suonerebbe con il country, e se gli volesse dare una personificazione, sarebbe quella del 'man who comes around' di Jhonny Cash.

La teoria della relatività

E lo ha fatto con The Hunted. Un film per molti versi eccessivo e disarmonico, ma anche profondamente coerente e onesto. The Hunted è prima di tutto un film sul confronto violento: della guerra, di due uomini, di due modi di vedere. Dalla guerra, quella del Kosovo, prende le mosse: in un villaggio occupato dalle forze militari serbe, uno spietato generale ha ordinato di sterminare tutti gli albanesi, mentre un gruppo di marine americani infiltrati ha l'ordine di eliminare proprio il sadico ufficiale. La guerra per Friedkin è ancora una volta un luogo esclusivamente fisico e di dominio dello sguardo-cosciente (Regole d'onore). Il marine Hallam (Del Toro) che porterà a compimento la missione, è in grado di rendersi perfettamente invisibile allo sguardo dei nemici, e di sopraffare nel corpo a corpo la propria vittima. I marine devono vedere la crudeltà del proprio nemico, e devono con cieca crudeltà porvi fine. Lo sguardo non deve allargarsi, non deve interpretare, non deve per nessuna ragione vedere oltre. I marine di Friedkin sopravvivono alla guerra solo immergendosi in quella relatività-parzialità che permette all'imperativo della vita di assorbire le contraddizioni. Ma soprattutto l'impostazione manichea serve a Friedkin per ribadire che ogni tentativo di mediazione (presa di coscienza) è destinato a portare una tragica e inutile guerra interiore (la follia individuale di The Hunted e la contestazione civile di Regole d'onore). Per questo motivo Hallam è destinato ad impazzire. Il suo sguardo si è lasciato penetrare (impressionare come una pellicola) dall'orrore della guerra, e si è rivelato ormai incapace di guidarlo in tempo di pace e nei luoghi della civiltà. Il marine perfetto a cui tutta l'America rende onore e riconoscimento (la medaglia al valore di Hallam), ha rifiutato di accettare la propria relatività, ed una volta reintrodotto nel tessuto civile americano è rimasto una micidiale macchina da guerra.

Apologia all'arma bianca

A questo punto prende il via il confronto all'ultimo sangue tra Hallam e il suo ex-istruttore L. T. Bohnam (Lee Jones), incaricato di scovarlo e neutralizzarlo una volta per tutte. Lo scenario bellico è sostituito dallo scenario naturale (il groviglio del bosco) e urbano (il groviglio della città). Ma l'impostazione rimane invariabilmente la stessa: da una parte il buono dall'altra il cattivo. E il principio secondo cui viene attribuita la vittoria è sempre la capacità di scrutare il campo di battaglia nella direzione giusta: per dominare il nemico con uno sguardo in grado di scovarlo e anticiparlo senza esitazione, e senza cadere nelle trappole di cui è disseminato il sentiero. Trappole che possono essere ideologiche oltre che materiali. Il principio che segue Bohnam, infatti, non ha nulla a che vedere con i metodi dell'Fbi e della polizia (incarnate dalla facilità con cui la donna poliziotto ricorre alla superiorità numerica e tecnologica). Lo scontro deve essere perseguito attraverso una sincera (e visibile) simbiosi con la natura dell’ambiente circostante, e attraverso una profonda (e cieca) comprensione della prospettiva in cui si è inseriti, e verso cui si deve necessariamente tendere (l'ammissione della giustizia inevitabile di un mandato superiore, come fede). Ma soprattutto lo scontro deve essere onorevole. E l'unico scontro onorevole per un guerriero è la manualità dell’arma bianca (il mestiere delle armi lo definirebbe Olmi). Lo scontro deve essere uomo contro uomo, senza la disonorevole distanza delle armi da fuoco. E per questo Friedkin considera la guerra un genere maschile (e misogino). La capacità di penetrazione dello sguardo dell'uomo si somma alla prontezza muscolare dello scontro fisico. All'interno di queste coordinate, che non prevedono nessuna considerazione morale, Friedkin ci racconta ancora una volta una lotta selvaggia tra uomini all'interno di in un territorio.

Isacco deve morire

Bohnam con la sua scelta ambientalista (il suo ritiro nei boschi), e la giustificazione della sola lotta per la sopravvivenza (l'odio per i bracconieri), non può condividere i metodi e i modi di vivere della civiltà. In un certo senso Bohnam è la versione di Hallam che si è imposta un auto esilio, ed ha sostituito le logiche della guerra e della civiltà, con una totale adesione allo spirito della natura selvaggia (il lupo bianco). È un uomo che sa riconoscere le conseguenze delle azioni degli uomini come le impronte che essi lasciano sul terreno. Ed Hallam è anche una conseguenza del suo addestramento. Per questo lo scontro dovrà risolversi tra loro senza nessuna interferenza esterna. Bohnam novello Abramo è stato chiamato a sacrificare il suo stesso figlio per una verità superiore. E come Abramo, utilizza un coltello, e questa volta fino in fondo.

Niente di nuovo

Friedkin è innamorato della sua poetica che qui come altrove è sempre splendidamente semplice e coerente. The Hunted ha però il difetto di reggersi di più sulla poetica del regista che sulla forza della storia. E in definitiva, mentre a livello di temi e tecnica Friedkin non aggiunge nulla di nuovo rispetto al suo repertorio, e anzi sembra ripetere già tutto quello che aveva detto con Regole d'onore, la storia è tra le più trite (Rambo), e soprattutto è scritta male, non riuscendo mai a coniugare perfettamente le scene d'azione dei due protagonisti (ben dirette), con il contesto delle indagini e i personaggi secondari (male definiti). Rimane un film che ha qualcosa da dire, ma non riesce ad organizzarsi in discorso: questa volta Friedkin è troppo innamorato dei suoi temi per esprimerli con chiarezza.

La caccia è un'arte nobile ad armi pari ma "supponete, se ci fosse una razza a noi superiore e…improvvisamente incominciasse a sterminarci, senza motivo, come reagireste?", Benicio Del Toro con psicopatico occhio spento così vaneggia durante un interrogatorio. Ed è buona metà del suo copione. Una voce ad inizio film (da una canzone di Bob Dylan) aveva dialogato, su sfondo nero, la vicenda di Abramo ed Isacco; Hallam tiene nel suo boscoso covo una bibbia con il segnalibro proprio sui passi della genesi che trattano della richiesta di sacrificio. Aaron Hallam è inesistente per l'umanità, è già morto, chi l'ha iniziato a ciò, suo padre nella morte, che in fine gli darà la pace, è proprio L.T. Bonham, non un militare, un istruttore di arti marziali (CCF - close combat fighting che unisce una serie di arti marziali, dal Jiu Jitsu al Kali Knife fighting) ritiratosi nelle nebbie e nelle nevi del Nord.
E' l'incontro di due menti e due gestioni di vita differenti: entrambi hanno scontato l'incontro con la morte industrializzata (la guerra, l'esercito, i corpi speciali) ed hanno reagito l'uno con la follia -mai chiarita da Friedkin che pure dovrebbe intendersene (L'esorcista, Rampage, L'albero del Male) - l'altro con il ritiro dal mondo.
Fin dalle sequenze d'apertura si inseguono: Bonham/T.L. Jones bracca un lupo bianco ferito nella neve solo per curarlo dalla ferita d'una trappola, Hallam/Del Toro tende un'imboscata a dei cacciatori sovra-armati (mirini tecnologici) che sono in realtà "eliminatori" pronti a farlo fuori.
Si incontrano, lottano silenziosamente nella foresta, attraversano una città, tra cantieri strade parchi dighe in sequenze di bella tensione, assai articolate nel dipanare spazi di frenesia che radono a zero il tempo. Sanguineranno entrambi. Ci sono militari in impermeabile grigio e cravatta rossa nel numero di quattro. Una poliziotta in gamba (Connie Nielsen) fa da contorno.
Tutto questo e nulla più, quanto sembrerebbe una riduzione all'osso dell'ultimo film di un ormai-maestro come William Friedkin è, in realtà, la totalità del medesimo sbrigativo prodotto il cui massimo impegno tecnico (anche se pessimo è - in ogni senso - l'incipit a Dakovica in Kosovo, digitalizzato grossolanamente) non ha alcuna controparte di scrittura tanto da far sembrare appiccicati i riferimenti biblici e l'eventuale - temiamo quasi immancabile - rapporto filial-paterno cui si accennava.
Dopo la filthy lucre edition de "L'esorcista", "Regole d'onore" e "La parola ai giurati" il buon ricordo degli amati Friedkin d'un tempo (Rampage, Vivere e morire a Los Angeles, Cruising, L'albero del Male) pur duro a morire, ebbene, subisce sprezzanti attentati.
Non si negheranno mai la cura tecnica ed un montaggio ben al di là della media hollywoodiana ma l'ennesimo Tommy Lee Jones -pur bravo- all'inseguimento di qualcuno (H. Ford - Il Fuggitivo, W. Snipes - Us Marshals, A. Judd - Double Jeopardy), i soliti toni coloristici, il misero abbozzo tematico/tramico non sono certo motivi per sobbalzare sulla seggiola.
In più il doppiaggio italiano si appropria delle battute della canzone d'apertura di Bob Dylan creando un certo spaesamento(: "ma chi leggeva?"). Benicio Del Toro si è rotto un polso durante uno dei combattimenti rinviando di quattro mesi al produzione.

La macchina bellica, aperti gli occhi sull’orrore di un’apocalisse immediata, maledice il genere umano e sceglie l’esilio, ma non riesce a evitare il confronto con il fantasma paterno. Echi biblici e shakespeariani (Timone d’Atene), confronti intergenerazionali all’insegna di Hobbes, first blood che rinvia tanto a RAMBO quanto a suggestioni di gusto freudiano: la zuppa predisposta dagli sceneggiatori David & Peter Griffiths e Art Monterastelli non fa onore al talento da gourmet del regista, indotto a smorzare le consuete, pregevolissime scintille (una caccia metropolitana tinta di acqua e sangue) nel gelo di una messinscena convenzionalmente “rude”. Sprecata, causa inconsistenza dei ruoli, la duttilità dei protagonisti.