Horror, Recensione

THE HOST (2006)

Titolo OriginaleGwoemul
NazioneCorea del Sud
Anno Produzione2006
Genere
Durata119’
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

[Film non uscito nelle sale italiane] Uno scienziato americano getta litri di formaldeide nel fiume Han. Un mostro esce dalle acque, miete vittime e rapisce la figlia di un uomo ritardato che gestisce un chiosco. Insieme con la sorella campionessa di tiro con l’arco, il padre e il fratello laureato, l’uomo va a recuperarla.

RECENSIONI

Ritratto di famiglia con mostro

Per una volta il grande successo di pubblico (in modo particolare in patria dove ha sbaragliato ogni record d’incasso) e il plauso praticamente unanime della critica internazionale non si accompagnano ad abbagli o sopravvalutazioni: The Host, clamorosamente inedito nelle sale italiane, è uno dei pochi film del decennio appena trascorso per il quale si può spendere senza indugi l’aggettivo “esaltante”. Al suo terzo lungometraggio, Bong Joon-ho declina in chiave lirica un entusiasmante monster-movie, fa saltare qualsiasi cliché di riferimento (blockbuster iperspettacolare, horror/fantascienza d’autore, satira socio-politica, cinema intimista, melodramma familiare, commedia burlesca, fiaba nera) pur osservandoli tutti, plasma un cinema di stupefacente ricchezza in cui ogni genere praticato rilancia e potenzia l’altro mantenendo una comunque stupefacente unità di sguardo. Nessuna pratica virtuosistica del pastiche fine a se stesso: The Host è racconto compatto e compattamente coinvolgente. Bong evita supponenti destrutturazioni d’autore ma con profondo rispetto verso i meccanismi narrativi del cinema popolare d’origine (nel quale il mélange di toni è pratica usuale) continua ad ogni modo il suo discorso sul disperato individualismo che attecchisce per spirito di autoconservazione nell’ostile deserto dei punti di riferimento istituzionali (discorso che si allarga del tutto naturalmente a una angosciosa ininterpretabilità del reale). La dimensione politica, dietro apparenti schematismi da B-movie (l’antiamericanismo da fumetto, la “solita” istanza ecologista), si articola in una riflessione non priva di inquiete ambiguità sul rimosso di un’intera nazione che fatica a fare i conti con la propria Storia (la collusione morale del padre con l’inettitudine del governo, la stanca disillusione del figlio “rivoluzionario”, l'esitazione cronica della figlia campionessa di tiro con l'arco). Lo sguardo autoriale non sovrasta l’apparato narrativo-spettacolare ma germina fluidamente da esso: in The Host, nonostante la cornice catastrofica, non tutto è irrimediabilmente perduto ma la famiglia, una famiglia di losers sbilenca e disallineata i cui membri riscoprono e rifondano in una situazione di emergenza i propri ruoli, costituisce l’ultimo focolaio di resistenza. Il desiderio di sopravvivenza oltrepassa così la dimensione di istinto per diventare un estremo atto sovversivo compiuto contro una pulsione di morte agita a più livelli, privati e pubblici.Lo sguardo di Bong inanella splendori compositivi fatti di flessuosi movimenti di macchina, una gestione mirabile degli spazi e dei tempi di prossimità spielberghiana (da antologia la coreografica apparizione del mostro sul fiume e l’attacco alla folla radunatasi sulla riva), una costruzione dell’azione adrenalinica che sfrutta in controtendenza (la dannosa e omologante tendenza Bruckheimer) piani lunghi, montaggio fluido, ralenti e tempi dilatati bruciandoli con accelerazioni improvvise (i Cahiers du Cinéma hanno giustamente scritto che in The Host il mostro è un “événement” e che a questo proposito “chaque plan est une invitation”), effetti speciali sbalorditivi per la perizia della fusione con le riprese dal vero e stretta pertinenza col narrato (bandito qualsiasi superfluo esibizionismo tecnico), magistrale mescolanza di diversi umori all’interno della stessa sequenza (esemplare quella della veglia funebre nell’improvvisato centro accoglienza per i parenti delle vittime del mostro, miracolosamente oscillante tra strazio e sogghigno) che sostanzia il grottesco di autenticità. Una regia, quella di Bong, che governa l’eterogeneità del materiale e l’unicità di ispirazione con liquida anarchia e robusta visionarietà, dando forma a un cinema dalle mille velocità emotive che deflagra nella grandiosa mezz’ora finale: fuoco e neve, dolcezza e crudeltà.
Squisitamente spettacolare, malinconicamente umanista, caparbiamente personale, The host è quasi il controcampo del primo piano sbalordito e dolente di Song Kang-ho col quale si chiudeva il bellissimo film precedente del regista, Memories of murder: senza più tentennamenti il grande attore coreano, protagonista di entrambi i titoli, guarda spietatamente in faccia la mostruosità della stupidità umana e di Stato e le scaglia contro una molotov incendiaria, fatta di comicità lacerante e limpida commozione.
Per chi scrive, senza troppi giri di parole, un capolavoro.

Mostruoso

Incredibile che il regista dell’ottimo Memories of murder abbia girato una Godzillata simile: avrà compiaciuto le platee coreane (enorme successo) ma minato considerevolmente la propria autor(al)ità. Come se la seconda parte demenzial/grottesca di L’Acchiappasogni occupasse un intero film (di due ore!). A ben guardare, è l’altra faccia della poetica arrischiata di Bong che, in questo caso, nel dosare thriller, speculazione e commedia, infetta irrimediabilmente questo qualunquista monster-movie con comicità stile Troma. I vari registri, infatti, mischiati, sovrapposti e confusi, annullano la propria efficacia l’un con l’altro, mentre la scorciatoia dell’assurdo è comodamente imboccata per giustificare azioni inverosimili. Se sottotesto c’è, per quanto invischiato in dialoghi del tipo “Quando scoreggia capisco se sta bene o no”, staziona in una non ben definita e incongruente traccia politica anti-americana (il plot fa riferimento a un incidente con la formaldeide realmente accaduto), con stoccate all’inettitudine del governo coreano. Si potrebbe azzardare che l’opera è volutamente “ritardata”, a specchio del suo eroe ma, per quanto Bong ami i protagonisti imbranati (ci costruisce sopra tracce ciniche sui generis), qui l’unico effetto che ottiene è continuamente irritante (ad esempio: il protagonista perde la figlia perché, sbagliando, salva quella di un altro; perde il padre perché gli passa un fucile scarico). Provando a prenderlo solo come blockbuster mercantile in stile Ghostbusters, poi, non diverte né meraviglia. L’ultima chance di rivelare uno scopo non meramente decerebrato, Bong l’aveva nel finale, ma rincorre la sola spettacolarità, con i tre fratelli che se la prendono con il Mostro invece che rendere, con un minimo di poesia, anche quest’ultimo vittima del Sistema. Nota di merito a Chin Wei-chen (design) e alla statunitense Orphanage inc. (CGI) che hanno dato vita alla creatura, l’unica che strappa qualche sorriso (le sue acrobazie sulle transenne!).