
TRAMA
Tomek Giemza è un giovane subdolo che trova il successo nel mondo oscuro della diffamazione sui social media, ma l’odio virtuale avrà ripercussioni violente sulla vita reale.
RECENSIONI
Più che con Suicide Room, di cui The Hater sarebbe dichiaratamente una sorta di sequel/spin-off e dal quale certamente ritornano diversi elementi (il personaggio interpretato da Agata Kulesza, la dimensione virtuale come specchio e campo di battaglia entro cui percepire e modificare la realtà, la persuasione attraverso l'avatar di un videogioco), il nuovo film di Jan Komasa sembra meglio dialogare con il bellissimo Corpus Christi, il quale, anche grazie ad una nomination agli Oscar, ha portato finalmente il nome del regista polacco fuori dai confini nazionali. A legare i due film, lo sceneggiatore Mateusz Pacewicz e un nome che, forse non a caso, ritorna in entrambe le vicende narrate: Tomasz, studente appena escluso dalla facoltà di Legge per aver plagiato un saggio e Padre Tomasz (il vero nome è Daniel), prete “impostore” in permesso lavorativo, in realtà ex delinquente costretto a vivere in riformatorio a causa dei numerosi reati commessi. Tomasz e Daniel sono due giovani in cerca di una seconda possibilità, due corpi invisibili incapaci di trovare il loro posto nel mondo; due fantasmi, due imbroglioni, due parassiti (di segno opposto, però), due volti scavati dall'angoscia (e quanto bene li sa scegliere e filmare i volti, Jan Komasa). Lì, nel film del 2019, quello di Tomasz era un nome nato da un improvviso furto di identità, materializzazione del proprio desiderio, volontà di fuggire dal grigiore della vita circostante per provare ad essere qualcosa d'altro; qui, Tomasz è il nome di un individuo che non esiste, un fake, un'entità astratta, un corpo che si smaterializza nella rete, un giovane che attraversa la realtà, ma la cui vera identità risulta sempre, per gli altri, indecifrabile.
E ancora, i due Tomasz sono figure che si ritrovano immerse in un contesto dominato dall'odio, che tuttavia affrontano in modo profondamente diverso, l'uno tentando di spegnerlo, l'altro alimentando la fiamma. In Corpus Christi, l'odio degli abitanti di un paesino di provincia nei confronti della moglie di colui che, a furor di popolo, avrebbe causato lo spaventoso incidente in cui persero la vita sei ragazzi del luogo, è una morsa che lentamente soffoca l'intera comunità e le impedisce di superare il lutto; l'odio metropolitano della Varsavia di The Hater è invece una forza invisibile capace di spostare le montagne: saperla governare e indirizzare a proprio piacimento significa, di fatto, avere l'opportunità di comandare il corso della Storia.
Lo si intuisce da subito: il quarto film di Komasa è, in tutta la sua evidenza, il suo lavoro più contemporaneo, quello che meglio vuole insinuarsi nelle storture del presente per cercare di comprenderne relazioni, cause, effetti, deviazioni. Vero è che non serve essere affermati sociologi o esperti di geopolitica per comprendere quanto un certo tipo di comunicazione sui social network, con tutto il companatico di fake news accuratamente create ad arte e veicolate da profili e pagine altrettanto fake, rivesta un ruolo centrale nella preoccupante esplosione di populismi e fascismi che sta attraversando l'Europa e tutto il mondo occidentale; tuttavia, nel concentrare lo sguardo su un protagonista in grado di diventare esso stesso emblema di un uomo dei nostri tempi (frammentato, egoista, arrivista, spietato, privo di qualsivoglia valore morale o etico, indefinibile, inclassificabile... eccetera), il regista polacco riesce a evitare i facili didascalismi di chi ha la presunzione di spiegare come si muove oggi il mondo (ci sono, ma non si varca mai la linea del fastidio) e soprattutto a tratteggiare lo sfondo in modo che ci sia sempre un fuoricampo con cui poter dialogare attivamente.
Insomma, nonostante sia lontano dal rigore e dal misurato controllo che faceva grande Corpus Christi, The Hater conferma le indubbie qualità narrative di Jan Komasa: il suo è un racconto dall'incedere lento e deciso, attento allo sviluppo dei rapporti tra i suoi personaggi e capace a tratti di costruire immagini e sequenze di una forza espressiva piuttosto interessante (i primi piani, la sparatoria, il finale). Un racconto che ancora una volta guarda il mondo attraverso i turbamenti di un giovane, da sempre il termometro più affidabile e sincero per valutare l'andamento e lo stato di salute delle cose.
E dunque, come stanno queste cose? Codice rosso: per i giovani non c'è nessuna via di fuga da loro stessi (Suicide Room), nessuna speranza di ottenere una seconda possibilità per realizzarsi (Corpus Christi), ma neppure, quando sposano il Male, nessuna punizione per l'odio iniettato compulsivamente nella società (The Hater). Certo è facile oggi essere pessimisti e Komasa lo è, senza ombra di dubbio. Di fronte però ad un pessimismo così ben argomentato e così correttamente filmato, di fronte ad una visione così cupa, eppure in grado di evitare le superficialità della maniera, è anche piuttosto facile crederci.
