Riflessioni

The Hateful Eight. Sulla carta.

Wyoming, fine ‘800. Una carrozza tirata da sei cavalli avanza nella neve. Così inizia The Hateful Eight, il western con cui Quentin Tarantino intendeva dar seguito al premiato (e, per chi scrive, sopravvalutato) Django Unchained. Lo script è lunghetto, ma non quanto il precedente: 141 pagine al netto di copertina e inframezzi; quindi, secondo la regola grossolana, quasi due ore e mezzo di film. Tarantino insiste sul western, ma con piglio del tutto diverso: abbandonate l’ambizione epica e la grandeur storica (o allostorica) di Bastardi senza gloria e Django, il Nostro torna a un disegno più intimo e stringato, in cui l’azione è estremamente concentrata nello spazio e nel tempo. Infatti, nonostante le prime parole dello script ci rivelino che il film debba essere girato in un “70mm mozzafiato” (lo stesso raro formato usato da Paul Thomas Anderson per The Master) e nonostante la prima inquadratura ritragga una catena di monti innevati, The Hateful Eight è soprattutto un film d’interni e assomiglia più a una pièce teatrale che a un film western. Il grosso del film, infatti, è ambientato da Minnie, un rifugio sperduto tra le montagne: un posto dove i carri possono sostare e i passeggeri bere del caffè e mangiare un po’ di stufato. I primi due capitoli del film, invece, si svolgono perlopiù dentro una carrozza che trasporta un cacciatore di taglie e la pericolosa delinquente che l’uomo ha appena catturato. Il Wyoming, gelido e brutale (una tormenta insegue il carro e poi costringe i personaggi a cercare riparo da Minnie), irrompe brevemente con campi lunghi fortemente giustapposti agli spazi chiusi in cui si svolge l’azione del film, che è tutta concentrata nell’arco di una sola giornata.
Ci sono due cacciatori di taglie (uno bianco e uno nero), una donna incatenata, un uomo che guida il carro e quattro sconosciuti, anche loro chiusi dentro Minnie per ripararsi dalla neve. Qualcuno dice di essere ciò che non è, e ci vorranno tutti i cinque capitoli del film (tra cui un cruciale flashback) per capire che sta succedendo e come va a finire. Come sempre, la scrittura di Tarantino, veloce e energica e con la solita ortografia squinternata, fa saltare l’immagine fuori dalla pagina e si fa divorare d’un fiato. L’impronta del recente Django è visibile: l’ambientazione western, i cacciatori di taglie, il personaggio nero (qui si tratta di un ex soldato dell’Unione, divenuto uno spietato bounty killer), il razzismo e la schiavitù (ancora una volta, come inneschi per l’odio e l’azione). Le differenze però sono evidenti. Innanzitutto, The Hateful Eight, almeno sulla carta, sembra guardare meno al melodrammatico western di Leone e Corbucci. A dire il vero, questo script assomiglia tanto a un western accidentale, in cui l’ambientazione è un pretesto per un gioco teso tra personaggi pericolosi e, potenzialmente, bugiardi. Il disegno, insomma, rimanda più a Le Iene e, in parte, a Jackie Brown che alla tonitruante filmografia tarantiniana degli anni 2000. Non mancano il gusto morboso per il dialogo futile, il sadismo e le esplosioni di violenza cartoonesca. C’è anche un personaggio probabilmente scritto per Christoph Waltz (lo si indovina dalla parlata forbita, benché stavolta con accento inglese, che rischia di consegnare per sempre il bravo Waltz alla macchietta). Pare che Quentin Tarantino abbia deciso di non girare più The Hateful Eight, perché la bozza di script è finita nelle mani di troppa gente. Un vero peccato, perché – nonostante il tono minore e il forte rischio di déjà vu (sarebbe tempo che Tarantino osasse qualcosa di nuovo) – The Hateful Eight, almeno sulla carta, sembra migliore del suo predecessore.