TRAMA
L’aereo della compagnia petrolifera in Alaska che li trasporta precipita. I sette superstiti sono alla mercé dei lupi: li guida Ottway, assunto dalla compagnia proprio per proteggere gli operai da questi animali.
RECENSIONI
Occasione mancata, perché adattando il racconto breve di Ian Mackenzie Jeffers, Joe Carnahan parte nel migliore dei modi, con afflato esistenziale tragico: l’Io narrante di Liam Neeson si descrive come anima in pena, disperata. A seguire il disaster movie e il survival movie: terreno ottimale per dissertare anche di “cosa ti tiene in vita”, di fede e valori, ma Carnahan resta troppo in superficie. Ritornano gli sprazzi del dolore che attanaglia il cuore del protagonista (l’amata: nel finale si intuirà che fine ha fatto) ma anche i comprimari hanno modo, di fronte alla morte, di raccontarsi e aprirsi, anche il più restio a mostrare i propri sentimenti. Ci sono la natura selvaggia e il pericolo che Carnahan, come ha dimostrato sin dagli esordi, sa filmare con uno stile tutto personale di dettagli esaustivi nella convulsione dell’azione in affanno. Infine, c’è il coraggio di una chiusura tragica (o quasi: dopo i titoli di coda, compare un fotogramma breve che mira al lieto fine) o, per lo meno, sospesa (resta di poco conforto la fine dei Dieci Piccoli Indiani). Nel mezzo, però, il film non funziona nell’evidente compromesso con le ragioni spettacolari e d’effetto, a cominciare dal modo di rappresentare e restituire nel montaggio i lupi: più che a “Il Totem del lupo” (splendido romanzo per capirli e rispettarli) ci s’ispira ai Masters of Horror da cui, infatti, si prendono in prestito le maestranze del duo Nicotero/Berger per animatronic e trucchi. Si perde in naturalismo (fondamentale per restare centrati sui drammi dell’essere umano) e si rincorrono gli stilemi dell’orrore, con immagini improvvise in cui è protagonista la sovrumanità delle belve (incuranti anche del fuoco), troppo antropomorfizzate, troppo demonizzate (gli occhi del branco nella notte) o rese epiche (il capobranco). La sospensione dell’incredulità scema, non si è più nei territori del film d’avventura, di riflessione sul senso (“un” senso) della vita, si perde l’occasione del parallelo fra branco umano e animale, è dietro l’angolo il rischio di ridurre tutto allo schematismo di un morto ammazzato dopo l’altro e si diluiscono i numerosi spunti sui differenti modi di affrontare la morte (notevole l’intuizione della poesia del padre di Neeson come riflessione allegorica sull’esistenza).