TRAMA
1977, South Bronx, New York City. La città brucia, la delinquenza si diffonde a macchia d’olio in un territorio squarciato da disparità sociali siderali. Mentre la disco music si fa largo con le sue sonorità dominanti, sottotraccia si riproduce una cultura emergente fatta di parole rapidissime, nuovi suoni, graffiti sui treni e balli di gruppo mai visti fino a quel momento. Ezekiel Figuero e Shaolin Fantastic saranno a capo del Get Down, la band con la quale tenteranno di dare una svolta alla propria vita.
RECENSIONI
È facile dire che orange (o qualsiasi altra cosa) is the new black. Oggi più che mai black is the coolest. Ma soprattutto, nel 2016 la black culture ha saltato a pie' pari quello steccato che divideva il mainstream dalle nicchie, modificando completamente – seppur gradualmente – i propri connotati. Il paradosso di The Get Down sta tutto qui: si tratta di una serie che racconta l'origine di un genere musicale di nicchia (l'hip hop) all'interno di una cultura allora minoritaria (quella black) in un quartiere (il Bronx) ai margini della città più famosa del mondo (NYC); allo stesso tempo però si tratta anche di un prodotto che oggi ottiene un successo planetario perché il mondo che mette in scena ha cannibalizzato la concorrenza, mettendosi comodo sul trono della cultura pop internazionale. In un Bronx colpito dalla criminalità, dalle architetture in rovina e dal famoso black out del 1977 – messo in scena in maniera encomiabile dalla serie che lo posiziona al punto climatico delle tre principali storyline – si muove una generazione di nerd legata dai graffiti, i fumetti, Star Wars e Bruce Lee, ma soprattutto caricata a molla da un disagio che non aspetta altro che un nuovo linguaggio per venire fuori. Gli spettatori contemporanei quella forma espressiva la conoscono a menadito e la amano smisuratamente, se si pensa che a due terzi del 2016 gli album più venduti dell'anno sono quelli di Drake, Beyonce, Frank Ocean e Kanye West, veri e propri fenomeni culturali prima ancora che artisti. Il successo di massa della black music contemporanea allinea perfettamente critica e pubblico – come dimostra il gradimento di Kendrick Lamar – in un modo molto simile a quello del rock inglese degli anni Sessanta e The Get Down oggi suona quasi come il dovuto riconoscimento a un genere che proprio nel momento del suo maggiore successo merita di essere re-immaginato grazie non solo al talento visivo di Baz Luhrmann, ma anche ai testi di Nas, executive producer della serie. The Get Down è anche l'approdo di Netflix alle serie musicali, che da qualche anno a questa parte stanno costituendo una sorta di nuovo genere nella televisione americana. Il musical non è una novità in questo panorama e in passato ha dato vita a lavori di qualità variabile e prodotto fenomeni di grande successo come Glee. Ultimamente l'incontro tra prodotti seriali e performance musicali ha prodotto grande innovazione, soprattutto rispetto alla riflessione sull'atto performativo come dispositivo narrativo, riscontrabile in serie di grande qualità e allo stesso tempo molto divertenti come Galavant e Crazy Ex-Girlfriend. Tuttavia The Get Down si inserisce in un'altra cornice che decide non solo di parlare con la musica ma nel farlo anche di parlare della musica, collocando il proprio racconto in una diegesi dominata dal genere musicale di riferimento. Per certi versi The Get Down sta a metà tra Empire e Vinyl. Della primo raccoglie l'intuizione – per la verità ormai molto più che immediata – di raccontare il contesto afroamericano a un pubblico non solo di colore, conscia dell'interesse planetario per la black culture e convinta che sia questo il momento adatto per un'origin story. Della seconda acciuffa l'aspetto di riscrittura storiografica: ovvero il tentativo di realizzare un period drama sull'industria musicale, declinando quello stesso concept attraverso un'estetica totalmente diversa. Se Vinyl era impregnata di scorsesità, fondendo il rock con il gangster movie, The Get Down lavora sull'hip hop attraverso l'estetica barocca di Baz Luhrmann, in cui la superficie deraglia volutamente dal suo spazio predefinito e la forma si fa sostanza. A partire da queste premesse – senza le quali è abbastanza difficile inquadrare la natura della serie – The Get Down opera una riflessione assolutamente non banale sul genere musicale che intende mettere in scena. Luhrmann decide di lavorare su un canovaccio che gli è estremamente noto dove la commedia musicale vede i due eroi superare le rispettive sfide prima di coronare il comune sogno amoroso, ma tramite ciò ci parla delle ragioni per cui questa cultura, allora di nicchia, non poteva che esplodere in quel tempo e in quello spazio. Il discorso relativo al genere è strettamente legato sia alla musica sia alle parole e fa del loro equilibrio un presupposto essenziale. Per quanto riguarda la prima è molto chiara l'opposizione tra la disco e l'hip hop, un'antitesi però non radicale come spesso è stata presentata, se non altro perché i due generi hanno un'estrazione per molti versi affine. L'emersione dell'hip hop è segnata da un'ossessione per il collezionismo peculiare, in cui il dj è il solo ad avere la conoscenza enciclopedica e il talento per mixare le tracce selezionate, elevando lo scratch a pratica rivoluzionare per cui si può parlare di un prima e di un dopo. The Get Down non sottovaluta il ruolo della parola, su cui riflette grazie anche al bravissimo protagonista Justice Smith, il cui rap non solo rappresenta l'unica via per superare la timidezza e conquistare la donna amata, ma anche quella per tirar fuori la rabbia generata da diseguaglianze sociali di cui ogni giorno lui e i suoi compagni pagano le spese. Lo show ci ricorda quanto questo tipo di cantato sia prima di tutto una forma d'arte e quanto il bisogno di raccontare sia intimamente legato al modo in cui si racconta, ragionando sul rap come punto medio nella relazione tra musica e poesia. Alcuni hanno criticato The Get Down per l'eccessivo uso di cliché, per la tendenza a usufruire di tropi narrativi ormai canonizzati che porterebbe a una perdita di originalità. Tuttavia ci sembra una critica abbastanza scentrata perché a uno sguardo attento la serie risulta un lavoro soprattutto di regia e montaggio che, come tutto il cinema di Luhrmann, si serve di logiche narrative consolidate e personaggi tipo per lavorare sulla messa in scena, sottolineando attraverso un'estetica iper-riconoscibile la differenza tra realtà a rappresentazione. Semmai è proprio sull'efficacia di queste scelte che è possibile operare delle critiche, perché è su queste che va valutato il fallimento o meno dell'operazione. A questo proposito The Get Down è davvero efficace soprattutto quando abbandona la misura, quando decide di esagerare, di esplodere in una girandola di effetti speciali in grado di dare un senso ai 120 milioni di dollari spesi (gli stessi di Game of Thrones, per intenderci), come dimostra in maniera emblematica il pilot di novantadue minuiti girato da Baz Luhrmann. _L'autore australiano riesce nell'arduo compito di realizzare un pastiche dove la diversificazione fa la parte del leone, un testo-prisma dalle mille facce, in cui convivono l'ossessione per Hong Kong – vista come nicchia culturale alternativa ai bianchi simile a quella afro e Bruce Lee come modello da seguire – e quella per i fumetti, il regno di Grandmaster Flash e quello di Kool Herc, il musical come dominio della sospensione dell'incredulità e le immagini di repertorio che ritraggono l'inferno dei sobborghi newyorkesi della fine degli anni settanta e la campagna elettorale per il nuovo sindaco all'insegna del public housing.
