TRAMA
La storia di Ray Kroc, venditore di frullatori nell’Illinois, prima, e creatore del franchise McDonald’s, poi.
RECENSIONI
John Lee Hancock deve avere un particolare interesse per i personaggi che hanno colonizzato l’immaginario mondiale, emblemi dell'imperialismo culturale americano. Dopo Walt Disney in Saving Mr. Banks, infatti, in The Founder si concentra sull’imprenditore Ray Kroc che al grido di “Affiliazione!” e “Gli affari sono guerra!” ha portato al successo il marchio McDonald's dopo averlo sottratto ai legittimi proprietari. Un percorso che diventa esemplificativo del sogno americano, quello in teoria alla portata di tutti ma che pochissimi riescono a realizzare e che Kroc insegue avanzando come uno schiacciasassi contro chiunque provi a fermarlo. La sensazione è che Hancock diriga sulle uova, cercando un equilibrio che scontenti il minor numero di persone possibile, in primis la multinazionale americana e la sua immagine nel mondo che non viene minimamente scalfita (nei titoli di coda viene specificato pure il ripristino del latte naturale al posto di quello in polvere per i milkshake!). Poteva, più banalmente, essere la messa in scena della resistenza di due imprenditori creativi che difendono la loro idea innovativa di ristorante contro lo strapotere di chi in nome del profitto non guarda in faccia a niente e a nessuno (“Un contratto è come un cuore, può essere infranto!”), invece The Founder celebra perseveranza e determinazione rispetto a talento, genio e istruzione, mantra del protagonista e cornice del racconto. Scelta stimolante e più che lecita, ma anche molto rischiosa se portata avanti in modo ambiguo. Si comincia infatti pensando a una sospensione di giudizio nei confronti di Kroc, per lasciare piena libertà di interpretazione allo spettatore, ma più il suo sogno prende forma, maggiore è la sensazione che non si tratti tanto di rispettare personaggio e pubblico, quanto di paura di prendere una posizione netta. Il classico dare un colpo al cerchio e uno alla botte.
Non è sufficiente, infatti, mostrare Kroc come un uomo senza apparenti qualità, a cui Michael Keaton dà una perfetta connotazione respingente, per insinuare crepe sulla sua vittoria e renderla problematica. E così dopo una prima parte preparatoria, in cui la quotidianità ordinaria del protagonista viene scandita dai ritmi dell’insoddisfazione, si passa a una seconda dove l’affermazione personale arriva sotto forma di ricchezza e potere, unici elementi che sembrano in grado di distinguere il trionfo dal fallimento. Alla fine Kroc diventa miliardario e fonda un impero, questo pare l’importante, mentre i due fratelli che lo hanno ispirato, Richard e Maurice McDonald, cadono nel dimenticatoio e appaiono un po’ come i pirla della situazione, ci manca solo che si mangino il cappello come Rockerduck. L’aspetto più curioso della sceneggiatura di Robert D. Siegel è che non assistiamo a una maturazione del personaggio, semplicemente è il suo essere inamovibile e fedele ai propri principi e slogan a portarlo al successo (“L’ambizione è l’essenza della vita!”, “La fortuna aiuta gli audaci”, “Il limite è il cielo!”). Su tutti i fronti, tra l’altro, perché anche il privato, da grigio e opaco (una moglie trascurata e poco complice), diventa brillante (la bella moglie di un socio di affari). Ma di ciò che passa per la testa di Crock finiamo per non sapere molto, lo vediamo smaniare ma non ne comprendiamo l’afflato e resta una figurina bidimensionale in un universo, quello dell’America degli anni ’50, messo in scena come se fosse un luogo della memoria, dove le gonne a ruota svolazzano, si va al cinema a vedere Fronte del porto e tutto pare filtrato dall’aura del mito. Un tuffo nel passato per meglio comprendere il presente, in grado quindi di illustrare una storia appassionante ma non di sviscerarne derive e complessità.
