Thriller

THE FORGOTTEN

Titolo OriginaleThe Forgotten
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2004
Genere
Durata96'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Telly Paretta ha perso il figlio Sam, di nove anni, in un incidente aereo e non riesce a farsene una ragione. Il marito e lo psicanalista le dicono, invece, che quel figlio non è mai esistito…

RECENSIONI

Ruben conferma la sua dote migliore: costruire presupposti decenti per poi mandare tutto a puttane (A letto con il nemico, L'innocenza del diavolo). Se infatti i primi venti minuti di film fanno sperare in un decoroso, anonimo thriller paranormale, i restanti settanta precipitano (transitivo e intransitivo) nell'abisso del nonsense più avvilente. Impresa titanica sarebbe enumerare le frotte di incongruenze e di forzature che funestano The Forgotten, ma basti in questa sede accennare al fatto che il primo mobile narrativo appare anche solido, se non fosse rovinato da uno sviluppo sciatto e tendente all'Xfiles-ianesimo più deteriore. E il primo mobile narrativo è (SPOILER!): gli alieni rapiscono platealmente i bambini terrestri simulandone la morte per poi cercare di cancellare il ricordo degli stessi dalle menti di babbi e mamme nell'ambito di un esperimento mirato a capire com'è che babbi e mamme umani amano tanto i propri figli che se questi schiattano non vogliono saperne di dimenticarsene (è così). Questa, lo ricordo, è la parte solida. Registicamente parlando, Joseph Ruben svolge un compitino da 6-, scopiazzando dal compagno di banco secchione ma poco intelligente, e si prodiga in plongée che scopriremo soggettive aliene (brividi), inseguimenti con macchina a mano fin troppo traballante e una buone dose di scossoni coadiuvati da sparate Dolby® dal decibellaggio ampliamente sopra i limiti di legge. La povera Julianne Moore finge di crederci per un po' ma quando la sceneggiatura di Gerald Di Pego (che meglio avrebbe fatto a telefonare a Shyamalan per farsi dare due dritte) diventa una parodia di una parodia di un episodio poco riuscito di Ai confini della realtà si arrende, e aspetta solo la luce in fondo al tunnel. La cosa più magnanima che viene da scrivere è 'peccato', perché in effetti i temi della realtà come percezione relativa della stessa e quello della memoria come unico legame tra i morti e i vivi (cfr. Dei Sepolcri, Foscolo, Ugo, Brescia 1807) non erano malaccio come spunto di partenza.

Una donna ha perso il figlio in un incidente aereo. Dopo quattordici mesi di dolore esorcizzato nel morboso attaccamento ai ricordi (le fotografie, i video), anche questi cominciano a sparire misteriosamente, facendo nascere il sospetto che la donna abbia inconsciamente inventato la scomparsa del figlio per giustificare il dramma di un aborto spontaneo. Quando anche il marito e la vicina di casa non la riconoscono più i dubbi diventano certezze. Ovviamente, non tutto è come sembra. Il film di Joseph Ruben parte con una certa onestà. Il soggetto non brilla per singolarità (l'eroina sola contro tutti che dovrà provare di non essere pazza) ma il copione innesta presupposti appetibili lasciando presagire un solido percorso thriller con possibili venature horror. Purtroppo le premesse vengono presto disattese e, dopo una parte centrale che cerca mollemente di irrobustire il mistero moltiplicando gli interrogativi, lo sceneggiatore Gerald Di Pego, in evidente crisi di ispirazione, gioca il tutto per tutto (faccia inclusa) nella virata fantascientifica. Per giustificare l'assurdità della narrazione arriva a far dire a un personaggio "La verità è troppo inconcepibile per la mente di chiunque!". Ma non basta l'ironia autoreferenziale di un dialogo per salvare il film dal fallimento. A peggiorare la situazione un finale sbrigativo, con personaggi che scompaiono dalla scena (il marito) e altri che non si capisce perché mai ci siano entrati (gli agenti della Sicurezza Nazionale). Nonostante il disastro della sceneggiatura, non tutto è da buttare. Julianne Moore è comunque una presenza di rilievo, capace di regalare sfumature a un personaggio che invece ne è privo; discorso analogo per Dominic West, nel ruolo ingrato della spalla maschile senza alcuno spessore, ma con la faccia giusta. Apprezzabile anche la scelta di mostrare una New York meno convenzionale del solito, con numerose sequenze salvate proprio dalla tangibile atmosfera metropolitana che regala il fascino e la verità assenti nel copione. Per il resto, il film è girato con professionalità, abusa un po' di inseguimenti inconcludenti resi frenetici dalla macchina da presa a mano, eccede nell'idillio dolciastro dei troppi flashback, gode di qualche peculiare panoramica aerea e riesce almeno in un'occasione a cogliere di sorpresa lo spettatore (quando un'auto irrompe inaspettata nell'abitacolo della macchina dei due protagonisti in fuga). Anche il montaggio di Richard Francis-Bruce e la fotografia livida di Anastas N. Michos dimostrano l'impegno profuso per nobilitare inutilmente un soggetto da telefilm vestendolo con l'abito del grande cinema. Un vestito elegante e a tratti suadente che non riesce però a coprire il vuoto di idee in cui finisce per ammuffire il progetto.