TRAMA
Pur vivace e a tratti ben lucido, Anthony mostra sintomi del morbo di Alzheimer, dimenticando fatti, luoghi e persone. Nel rapporto con i suoi familiari e con la giovane badante Laura, ultima di una lunga serie, la vita di Anthony prosegue per frammenti confusi che la sua mente non riesce più a ricomporre.
RECENSIONI
Il cervello di mio padre
Con The Father il regista e drammaturgo Florian Zeller porta sullo schermo la sua opera teatrale Le père (2012, in Italia l’allestimento del 2017, con Alessandro Haber e Lucrezia Lante Della Rovere, era firmato da Pietro Maccarinelli), parte di un trittico che comprende anche La mère e Le fils (anche quest’ultimo in predicato di adattamento cinematografico). È uno dei drammi più premiati degli ultimi anni forse perché, al di là del valore della pièce, tocca alcuni dei nervi scoperti della nostra epoca: innanzitutto quello di una società che, sconfitte tante patologie, è sempre più anziana e si confronta, inevitabilmente, con un nuovo modo di invecchiare che impatta a vari livelli sul tessuto sociale. Dunque l’Alzheimer come malessere emblema del contemporaneo (su questa malattia degenerativa che comporta la perdita del sé, molto prima dell’estinzione del corpo, i saggi si sprecano - a cominciare dal memoriale di Jonathan Franzen Il cervello di mio padre, ormai riferimento obbligato per chiunque si avvicini alla materia -). E che, al di là del puro dramma (Still Alice, per tutti), secondo una lettura anche allegorica, viene rappresentato al cinema da un bel po’: da Away From Her (che data ormai 2007, ma era già molto spinto sul piano simbolico) a Mr. Holmes di Bill Condon, fino a Remember di Atom Egoyan, leggibile a più livelli fin dal titolo. E poi Amour, certo. Anche gli ultimi Re Lear visti a teatro ormai decodificano la follia del protagonista categoricamente in quella chiave, alla faccia dell'ambiguità scespiriana. Ma c’è anche un altro punctum dolens che viene toccato dall’opera e che concerne una figura che del discorso generale di vecchiaia & malattia è appendice irrinunciabile: l’assistente familiare (o badante, come si usa dire). Solo un paio di opposti esempi: se in Due di Filippo Meneghetti l’infermiera h24 è un vero e proprio villain, nell’opera teatrale di Cesare Lievi, La badante, rappresenta l’unica voce davvero umana in un mondo familiare fatto di assoli indifferenti. Ci troviamo di fronte a un “neoarchetipo” col quale, prima o poi, siamo destinati a scontrarci, una figura che accompagna l’ultimo stadio della vita della persona e che per questo precedere la morte si fatica ad accettare («mi deruba» come variante a «mi avvelena»).
Questo concatenamento di temi sensibili comporta livelli di immedesimazione altissimi nel pubblico, riguardando situazioni con le quali, direttamente o indirettamente, abbiamo avuto tutti a che fare e che sappiamo, direttamente o indirettamente, quanto dolore comportano. E che Zeller sa isolare con pudica efficacia e nessuna morbosità (il protagonista che non riesce a infilarsi un pullover: serve altro?).
No Time No Space
Premetto questo perché sul discorso dell’immedesimazione si fonda la stessa idea drammaturgica dell’opera. Che mette in scena la vita quotidiana di Anthony, un ottuagenario londinese che sta progressivamente perdendo la memoria e che rifiuta le assistenti che la figlia Anne gli affianca. L’uomo è in quella condizione di grande sofferenza di un malato di Alzheimer (anche se la patologia non viene mai menzionata) lucido abbastanza da afferrare un bel pezzo di realtà: quanto basta per fargli comprendere di non riuscire a gestirla e a decodificarla. Lo spettatore si rende conto quasi subito di essere tarato sulla prospettiva del protagonista: come Anthony si trova di fronte a eventi di logica contraddittoria e imperscrutabile, a combattere con una dimensione temporale le cui coordinate sono smarrite, con una massa di ricordi (e sogni, pure) che si sovrappongono a un’attualità distorta, impossibile da recuperare nitidamente, in cui certe situazioni sono intrappolate in loop e in cui ogni nuovo risveglio mattutino è un reset che costringe a ricostruirsi l’orizzonte degli eventi (non a caso Anthony si aggrappa all’orologio come a una boa: è un riferimento forte, almeno simbolicamente, in una situazione che gli sfugge da tutte le parti).
Detta in termini cinematografici: siamo calati in un dramma in cui presente, flashback e flashforward sono indistinguibili e comunque tutti potenzialmente falsi, in cui la successione degli eventi è programmaticamente nebulosa. Siamo in un labirinto in cui, come Anthony, lo spettatore è smarrito. E nel quale non può trovare la strada che lo conduca all’uscita, il fine di Zeller essendo esattamente opposto: obbligarlo allo stesso disorientamento del malato, costringerlo a empatizzare con la disperante confusione del protagonista. E infatti tutti i tentativi di ricostruire in un modo coerente la realtà oggettiva dei fatti risultano fallimentari: nelle ricostruzioni che tenteremo ci sarà sempre qualcosa che non quadra, la verità essendo risucchiata in questa sorta di nastro di Möbius che è la mente del protagonista [1].
È la caratteristica forte del dramma di Zeller, quella di non parlare di demenza senile, ma far parlare la demenza senile: rifarsi a una tradizione di drammi elusivi (che va dal teatro della minaccia di Harold Pinter al realismo laconico di Jon Fosse), ma fondandola non più sulla constatazione esterna di fatti enigmatici, ma su un’immersione soggettiva, e perciò distorcente, nella realtà (e allora, più che il tanto evocato roi di Ionesco, mi viene in mente il dramma di Stefano Massini L’odore assordante del bianco, 2007, che mette letteralmente in scena la follia del Van Gogh ricoverato in manicomio).
[1] Franzen, nel suo saggio, paragona l’elaborazione del ricordo del malato alla qualità dei suoi personali ricordi, «confusi e vividi allo stesso tempo», e opera un parallelo tra la creazione della sua fantasmatica coscienza e i processi di reti neuronali che si autocoordinano spontaneamente, propri del malato: «Lo trovo affascinante e postmoderno».
La versione di Anthony
L’opera, dunque, è costruita in modo da rendere plausibili tutte le ipotesi. Ad esempio: la badante Laura (Imogen Poots) appare ad Anthony col sembiante della figlia defunta, ma è fin dall’inizio The Woman (Olivia Williams), l’infermiera dell’istituto. Oppure Laura è davvero una giovane badante che ad Anthony ricorda la figlia e che viene a conoscerlo per occuparsene, per essere poi ingannevolmente sostituita, nel secondo incontro, da The Woman, avendo la figlia Anne deciso, su spinta del compagno, di ricoverare il padre nella casa di cura.
Ancora: la figlia Anne va davvero a Parigi, si rifà una vita mollando il compagno che ha maltrattato il padre. Oppure: Parigi è fin dall’inizio la scusa ufficiale che Anne inventa per giustificare al padre il ricovero nella casa di cura. E via così (ho riempito pagine, evito di sciorinarle) ad alternare versioni che alimentano sospetti sui familiari o accentuano il carattere paranoico delle supposizioni di Anthony. Posto che, a mio avviso, la base è che ci troviamo fin dall’inizio nella casa di cura e quello che vediamo è un collage di ricordi e mistificazioni della realtà assemblato caoticamente dalla mente malata del protagonista che confonde, nella circostanza attuale del ricovero, tutti i livelli di tempo precedenti, mescolandoli al presente. Ma, ribadisco, tutte le ipotesi sono buone perché di ogni scena la percentuale di verità è indeterminabile (è tutto vero, è solo parzialmente vero, è prevalente falso, è completamente falso) [2].
Una condizione che è esistenziale in senso anche filosofico perché propone l’atavico interrogativo: la realtà è un dato oggettivo? E se la condizione del malato di Alzheimer, sfuggendo alla ragione, mettesse in crisi proprio questa visione della realtà come valore unico e normativo? Ne mostrasse la mutevolezza, la fragilità? E il senso estemporaneo e autoreferenziale delle cose? Rovelli miei personali, ma che immagino non completamente estranei alle logiche di scrittura di Zeller, nel momento in cui, per narrare questa storia, ha scelto la “versione di Anthony” (a proposito, La versione di Barney, altro romanzo + film sull’argomento, presenta un racconto pieno di buchi “patologici”).
[2] Il saggio di Franzen spiega - non sapendo di farlo, ovviamente - la logica su cui si fonda la costruzione narrativa del film (e del dramma teatrale, prima): «Il cervello non è un album in cui i ricordi vengono immagazzinati separatamente come fotografie inalterabili. Un ricordo è, invece, come afferma lo psicologo Daniel L. Schacter «una costellazione temporanea» di attività - un'eccitazione inevitabilmente approssimativa dei circuiti neuronali che collegano un insieme di immagini sensoriali e dati semantici per creare la sensazione momentanea di un ricordo unitario. Immagini e dati sono raramente appannaggio esclusivo di un unico ricordo».
Il cervello di mio padre, Jonathan Franzen, traduzione di Silvia Pareschi.
Scenario mentale
Zeller a teatro rendeva le caratteristiche del dramma giocando sulla interscambiabilità degli attori-personaggi (che diventava anche sovrapposizione di dimensioni temporali) e, sfruttando al massimo l’unicità della scena - facendone di fatto una dimensione mentale, puntando a variazioni minime di arredi -, legittimava, anche agli occhi dello spettatore, il dubbio sull’effettiva collocazione spaziale dell’azione. Si comprende per quale motivo abbia visto le potenzialità cinematografiche della pièce e perché abbia voluto dirigerla in prima persona: il cinema, assicurando lo sguardo ravvicinato sulle cose, non può che esaltare le caratteristiche del dramma in termini di esperienza, ponendo in secondo piano il discorso fondamentale del mutamento graduale e quasi impercettibile della scenografia, enfatizzando l’angoscia che lo spaesamento di Anthony determina (si pensi alla prima, improvvisa apparizione di The Man, che sullo schermo assume i toni del thriller). Perché mentre la macchina da presa sembra concentrata sulle figure umane (e su quella del protagonista in particolare) non meno rilevante è come evolve il contesto nel quale esse agiscono. E del cui mutamento ci si accorge quasi a un solo livello subliminale.
Con l’aiuto decisivo di un esperto adattatore come il drammaturgo Christopher Hampton, Zeller sfronda una scrittura già stilizzatissima, aggiunge la scena nello studio della dottoressa, trasforma in azione scenica il monologo della figlia sul tentativo di soffocamento del padre (lasciandolo sul filo, tra l’implicito istinto e l’allucinazione onirica), fa intravedere, in maniera distinta, la filigrana di una tragedia familiare. In questo senso lascia intuire quello che si agita sotto la superficie del rapporto tra Anthony e Anne: il dolore rimosso dell’uomo per la morte della figlia più giovane; la gelosia di Anne per quella sorella morta che il padre, oramai privo di inibizioni, non esita a definire la sua preferita. È la stessa perdita di inibizioni che svela in modo dolorosissimo la considerazione paterna di Anne come poco intelligente. È quella sopravvenuta mancanza di filtri che mette a nudo il rapporto padre-figlia senza infingimenti o alibi morali. Quella impietosa verità che conduce Anne a confrontarsi con l’affetto per una persona che non riconosce più, perché ora la distingue troppo bene: per Anne il padre è crudele in un modo che non può (più) negarsi.
Il film, insomma, è un adattamento riuscito perché, posti i meriti della pièce, a cui deve quasi tutto, non li dissipa, non li depotenzia, li reinterpreta e li ripropone con l’efficacia rinnovata dalla peculiarità del mezzo, piegandola a questo gioco del non mostrare completamente, di risignificare in chiave soggettiva le sequenze (e il modo scelto per metterle in scena, tra primi piani che chiudono il protagonista nella sua bolla mentale e pianisequenza che si muovono nell’ambiente come in un dedalo) per alimentare la confusione spettatoriale. Il tutto - grazie al superbo lavoro di montaggio - senza che il racconto appaia mai caotico, ma, al contrario, sempre, calcolatamente, “quasi” coerente. Zeller a tutto ciò, aggiunge anche un lavoro sull’interprete di inedita immedesimazione [3] che riconfigura quello svolto per la versione teatrale che aveva segnato il trionfo di Robert Hirsch sulle scene francesi. Ma dire del livello interpretativo di questo film significherebbe inoltrarci nei territori dell’ovvio. Mi limiterò a un altrettanto ovvio, ma almeno perentorio, «versione originale senza alternative».
[3] Florian Zeller - Quando ho iniziato a sognare di scrivere il copione, la faccia che avevo in mente era quella di Anthony (Hopkins). All'inizio sembrava un po' irrealistico, e probabilmente ho deciso di usare il nome di Anthony per renderlo, almeno per me, un po' più reale. Era un modo per essere assolutamente legato a lui e scrivere quella sceneggiatura per lui (...). Qualche giorno prima di girare il film, Anthony è venuto da me e mi ha detto: «Florian, sei sicuro di questo nome? Il mio nome, e la sua data di nascita, che è la mia vera data di nascita. Sei sicuro che è utile?» Aveva dubbi. Gli ho detto «Sì, voglio che rimanga così», perché pensavo che potesse essere come una porta. E che potesse aprirsi in qualsiasi momento durante le riprese per far entrare emozioni molto personali, e più precisamente, il proprio sentimento personale di mortalità. La sfida era cercare di esplorare un nuovo territorio, un nuovo territorio emozionale. Non mi sono rivolto a lui per chiedergli di fare ciò per cui è conosciuto, in un certo senso. Volevo che entrasse nell'ignoto con me, per esplorare questo posto dove c’è solo fragilità e insicurezza».