TRAMA
Tornate nell’antica dimora di famiglia, trasformata in un hotel ma carica di un misterioso passato, un’artista e la madre anziana affrontano segreti rimasti a lungo sepolti.
RECENSIONI
È di una razionalità stilistica talmente rigida questo The Eternal Daughter di Joanna Hogg che facilmente si comprendono i motivi della tiepida accoglienza riservatogli all’ultima edizione del festival del cinema di Venezia. La regista inglese, giunta ormai al suo sesto lungometraggio in seguito a una lunga carriera in ambito televisivo, spinge il suo formalismo scolastico al punto di abbracciare un’idea di cinema vicina al videosaggio, riprendendo dal meta-cortocircuito del precedente The Souvenir Part II nel quale innestava Caprice, sua opera prima e mediometraggio contenitore delle forme cinematografiche degli anni ottanta, in un finale autobiografico. Così, anche The Eternal Daughter si inserisce in questo movimento a ritroso, nel pensare al cinema come dispositivo mnestico dove convergono memorie collettive e personali ma anche come luogo di rancori e violenze, di permanenza delle immagini, dove i segni già prodotti consumano e poi inghiottono quelli del presente. Tilda Swinton (lanciata nel 1986 proprio con Caprice dalla stessa Hogg, è bene ricordarlo) interpreta sia Julie che Rosalind, figlia e madre che si recano nel vecchio maniero di famiglia, oggi un hotel apparentemente deserto che è la rivisitazione gotica dell’Overlook Hotel di kubrickiana memoria, nel tentativo da parte di Julie di collezionare nella maniera più vivida possibile i ricordi della madre e trovare una soluzione a se stessa attraverso un libro. Ma la stanza in cui le due alloggiano si chiama Rosebud, la Rosabella di Quarto Potere, il film per eccellenza sull’ineffabilità dell’uomo, sulle memorie falsate, sull’irrappresentabile, una stanza che, come la 237 di Shining, porta con sé memorie e dolore. Se l’Overlook era però colmo di sangue e fantasmi, qui i ricordi si manifestano attraverso il vuoto, quello della messinscena, del castello popolato dalle due donne e da una receptionist scorbutica il cui sguardo sembra vagare senza meta, oltre che quello lasciato attorno alle donne da una macchina da presa che le incastona nel quadro singolarmente, senza mai mostrarle assieme, in un gioco smaccato di specchi e finestre che riflettono doppi (e spiriti?), le immagini contro le immagini stesse.
Una figlia che tenta di inghiottire le memorie della madre, di immortalarla, comprenderla e rielaborarla, ma anche le memorie di una madre che si mangiano la figlia: è il cannibalismo scopico che si manifesta nelle cene al lume di candela che le due consumano attraverso lo sguardo, quasi senza toccare cibo. Ma è anche, e soprattutto, quindi, il cinema che divora il cinema, il vicolo cieco dei simulacri declinato nel genere horror. Tilda Swinton che, come nel Suspiria di Guadagnino, interpreta più personaggi e fa da psicologa a se stessa e che viene “svegliata da un rumore” come in Memoria (coincidenza?) di Apichatpong; le luci al neon verde di Vertigo – La donna che visse due volte di Hitchcock; un maniero isolato alla Rebecca – la prima moglie o alla Suspense di Clayton e, ancora una volta, ostinatamente, Shining ovunque, film esso stesso sul riverberarsi del dolore nel corso dei secoli ed eletto dal cinema contemporaneo come luogo del ricordo e della sua inafferrabilità: Flanagan ricostruisce da zero le sue inquadrature più celebri in Doctor Sleep, Spielberg lo manipola, lo digitalizza, lo parodizza in Ready Player One, Ctrl Shift Face lo conduce nel regno posticcio e perturbante dell’intelligenza artificiale con il deepfake del volto di Jim Carrey su quello di Jack Nicholson, Hogg lo decostruisce e lo svuota, lasciandoci con l’idea di un’immagine mancante e, proprio per questo, ancora più potente e presente.