TRAMA
Robin Wright, che interpreta se stessa, riceve da un grande Studio l’offerta di vendere la sua identità cinematografica: verrà scansionata e di lei verrà creato un campione così che lo Studio possa utilizzare la sua immagine a piacimento in qualsiasi tipo di film di Hollywood – anche i più commerciali da lei in precedenza spesso rifiutati. In cambio, Robin riceverà una cospicua somma di denaro, ma soprattutto, lo Studio promette di mantenere il suo alias digitale per sempre giovane – per l’eternità – in ogni film (dal pressbook).
RECENSIONI
La riflessione metacinematografica ingombrante c’è; la star femminile che sta appassendo e che oltre i 45 anni non può – o addirittura non deve – più recitare pure; c’è anche il conflitto etico tra desiderio e realtà che si nutre di tragico senso dell’apocalisse. Il mondo del cinema, dello star system hollywoodiano che Ari Folman filma in The Congress si nutre di un catastrofico senso della disperazione che indurrebbe anche i cineasti più pessimisti a risollevarsi anche solo per girare un fotogramma in digitale e dire che in fondo non tutti i mali vengono per nuocere. Intanto da The Congress bisogna uscirne: nel senso che siamo di fronte ad un cinema-incubo, ad una dimensione spaziotemporale senza confini e perennemente di fronte all’infinito protrarsi del filmabile. E la questione non è tanto quella riferita alla contrapposizione formale tra i primi 45 minuti di fiction con attori in carne ed ossa che recitano la fine del mondo (cinematografico), come lo abbiamo studiato nel novecento – vedi anche alla voce ‘autore’ e ‘autorialità’ -, con la restante ora e mezza di animazione dove gli stessi attori vivono l’ ‘altro’ mondo, quello ‘congressuale’, fatto di trip lisergici e affermazioni visionarie della propria coscienza. No, la divisione, anzi lo slittamento dalla prima alla seconda parte è la semplice continuazione di un discorso che sta alla base di entrambe le parti: il cinema con l’affermarsi voluto della tecnologia digitale di ripresa si sta trasformando in qualcosa di orrendo, moralmente aberrante e stereotipato, nell’ennesima e forse ultima variante di un neoliberismo sfrontato e asociale che usa la digitalizzazione per cancellare, e allo stesso tempo perpetuare ad libitum, il simulacro dell’attore umano. The Congress è, forzatamente, senza troppi giri interpretativi, un temibile (e discutibile) film a tesi. Bastano gli sguardi e il vigore morale dei rifiuti di Robin Wright, fu Penn, in quella contrattazione tipica del mondo privato del lavoro odierno dove, appunto, non si contratta ma si subisce un ultimatum, un ricatto, un’imposizione spesso poco remunerativa, svilente, offensiva. Robin, con carriera notevole alle spalle e figli problematici a carico, non vuole essere ‘registrata’ su una memoria computerizzata con tutta la sua gamma espressiva e verbale: memoria che poi utilizzerà l’attore per farlo recitare senza convocarlo dal vivo su un set, ma ripetendone all’infinito le possibili ‘x’ performance registrate. Lei si oppone, e lo fa come un’eroina degli anni settanta, una scheggia antisistema, che so, di un film di Alan J. Pakula.
E mentre là opponendosi e rifiutando il patto etico conformista col diavolo si costruiva la speranza (di un mondo migliore?), qui in The Congress si entra nel baratro eterno della spersonalizzazione del cinema, dell’appiattimento del gusto e del piacere: perché, volenti o nolenti, il patto proposto dalla megaproduzione hollywoodiana bisogna accettarlo. Folman, in questo, è terribilmente spietato: dalla dinamica impositiva del cinema digitalizzato non si può sfuggire. L’autore è morto e il cinema, gli spettatori, i rimbambiti protagonisti del congresso (umani che si reincarnano in personaggi animati celebri come la loro coscienza vorrebbe), quelli che guardano dalla finestra il trailer di “Rebel Robin Robot” – protagonista la Wright in carne ed ossa utilizzata nella sua versione digitale – si sentono invece molto bene. Per questo poi da questo meccanismo ossessivo che regola la permanenza nell’aldilà animato, la protagonista non riesce a fuggire. E’ come se l’aver accettato di non essere più l’artefice delle proprie scelte professionali o del proprio destino, non permetta più di correggere la propria recitazione, di ripetere un ciak, magari anche al di fuori del cinema e dentro l’intimità del proprio privato. Il loop infernale è servito. Per chi vuole tornare indietro da The Congress – nel film il contratto tra la major e la star per i diritti sull’attore registrato dura 20 anni - c’è un mondo di esseri umani non animati distrutto e miserabile con infinite file di poveri e carestie. Firmata l’opzione ‘di sistema’, dal Congresso non se ne esce più. The Congress fa davvero paura e lascia un qualsiasi liberal-progressista, cinephile vecchia maniera, con il buio più cupo davanti agli occhi, alla ricerca di una vhs che riporti le lancette del cinema indietro di parecchi decenni.

Ari Folman prende spunto dal racconto “Il congresso di futurologia” (1971) di Stanislaw Lem per dipingere il futuro (la morte) della settima arte con attori digitali. La Resistenza la interpreta attraverso la grandezza del cinema, sin dalla prima scena: primo piano di Robin Wright in lacrime e carrello che rivela, dietro la vetrata, aerei e bandiere colorate, mentre udiamo una voce non identificata (è Harvey Keitel) che le illustra un’esistenza di scelte sbagliate. A seguire, talentuose prove di recitazione con monologhi in piano sequenza ed un potente testo teatrale con Il Disprezzo (Danny Huston): ma è il profilo femminile ad insinuarsi sottopelle, con anomalie che ammantano anche il figlio, prossimo a sordità e cecità che l’otorino di Paul Giamatti diagnostica come evoluzione per tradurre in modo differente gli stimoli. Nella parte “live action”, cioè, in un racconto apparentemente consueto di fantascienza con Lei e metacinema, Folman inserisce lievi distorsioni per aprire le porte ad una percezione diversa. Prepara lo spettatore alla seconda parte dove logica e assurdo, realtà e illusione perdono del tutto i confini reciproci, si confondono e sembra di (ri)entrare in un universo lisergico anni sessanta, con Robin-cartone animato che, per raggiungere il congresso, attraversa i marosi fantastici di Yellow Submarine, circondata da caricature divistiche che il direttore dell’animazione Yoni Goodman (Valzer con Bashir) tratteggia con stile anni trenta. Non è commedia, non è Fuga dal Mondo dei Sogni: c’è un perenne senso di allucinazione nefasta, mentre Robin si trasforma in simbolo della perseveranza dell’umanità di carne ed ossa in un mondo di illusioni (è l’unica a mostrarsi invecchiata mentre tutti reinventano il proprio aspetto) e, come ne La Macchina del Tempo di Wells, sperimenta varie realtà e viaggi nel tempo, fra cui un futuro dove siamo formule chimiche che abbandonano definitivamente la realtà, anche quella del proprio essere. Di allucinazione in allucinazione, giunge un finale, vero o falso che sia, che la dice lunga sul futuro delle “rappresentazioni umane”. Quasi capolavoro, mancato per eccessi: di laconicità, di facile citazionismo (vedi Il Dottor Stranamore, con un’ironia che stona con il contesto).
