TRAMA
Christian, un produttore cinematografico che ama filmare i suoi rapporti sessuali; Tara, la sua fidanzata; Ryan e Gina, due giovani attori che recitano in un horror prodotto da Christian; Lindsay, un’ex attrice diventata insegnante di yoga; i cinque sono apparentemente coinvolti nella produzione di un film che sembra non interessare a nessuno: le loro relazioni mettono in moto una serie di eventi che sfoceranno in inganni, paranoia, crudeltà psicologica e violenza.
RECENSIONI
Interessato alle forme possibili del melodramma moderno (basti ricordare, tra gi ultimi, il bello quanto incompreso Foverer Mine), Schrader prosegue nella perlustrazione del genere assoggettandolo alle logiche odierne, imboccando una direzione autoreferenziale in cui Hollywood suona allo stesso tempo ambientazione e metafora.
La sequenza-chiave apre il film, dichiarazione di intenti tematici, programma di stile: la location, i quattro protagonisti già schierati, i loro legami, i loro desideri costituiscono il centro propulsivo dal quale si diramerà ogni agire conseguente. La mdp si sofferma sulle espressioni degli astanti rimanendo, per qualche istante, il dicente fuori campo: i volti di Tara e Ryan danno testimonianza fulminea del loro disagio - un disagio che già racconta la loro (segreta) love story - anticipando il mélo ("invertitO" rispetto alla tradizione), quello che riluce nel tormento oscillante tra un amore che è impossibile vivere alla luce del sole (perché si dibatterebbe tra stenti, affitti da pagare, lunario da sbarcare - tutte cose che nella classicità, in the name of love, si era pronti ad affrontare ed oggi sono tabù -) e una relazione pubblica che assicura soldi e potere (ciò che questa epoca ha deciso valere la pena possedere, per il quale è giusto lottare e su cui si gioca, dunque, il tormento connaturato al genere e debitamente attualizzato).
I personaggi lavorano nel cinema, ma l'indifferenza nei suoi confronti è evidente («Do you really like the movies?» chiede Tara a Gina): non si vede mai un set, del resto, mentre i protagonisti sono tutti impegnati a recitare parti, incarnare ruoli, aderire a copioni, occupare scenari, farsi riprendere. Gli studios come distaccamenti di una fabbrica di celebrità volatile cui le aspiranti starlet si attaccano disperatamente prima di rassegnarsi al fallimento.
L'epica del cinema è dunque umiliata a chiacchiera, a pretesto da spendere per acquistare attenzione e usare persone e corpi, una ex arte nobile, oramai decaduta persino come effimera fucina dell'abbaglio, mondo popolato da un'umanità di plastica, di patinate facce televisive già morte, lugubre ammasso di fantasmi da evocare: lo confermano le spettrali immagini dei titoli - teatri fatiscenti, sale abbandonate al degrado - che rinviano a un tempo in cui quegli spazi si illuminavano di storie, di relazioni umane e sentimentali che The Canyons ricicla e assoggetta alla sua logica mortuaria, schemi hollywoodiani brutalmente aggiornati al verbo della Contemporaneità. Le colline dove campeggiavano quelle lettere (H, O, L, L etc) è come se non esistessero più, al loro posto ci sono anfratti, avallamenti profondi che commemorano la caduta dell'Impero, canyon che testimoniano la perdita.
A metà strada tra vanità ed affanni seriali e un iperrealismo che ha del politico, le immagini ci parlano anche degli attuali modi di fruire del cinema, sempre più lontano dai grandi schermi, di un'epoca in cui i film si guardano su Internet (The Canyons, insomma, si autodenuncia perfetto campione di questo tempo post theatrical: nasce per il video, negli Stati Uniti non ha distribuzione in sala), in cui un'intera mitologia si è frantumata in pixel, assieme alla socialità di quel rito collettivo che prevedeva il rinchiudersi tutti assieme in una sala buia. Il cinema, centro della cultura popolare nella cui trasformazione va letto il sintomo di un mutamento più ampio, si è ripiegato in una ossessiva, solipsistica contemplazione di uno schermo sempre più piccolo in cui la fruizione non ha più regole né parametri, dove i limiti sono labilii e le leggi aggirabili: un'Etica intera si è sbriciolata. Le sale si svuotano, sembra dirci Schrader, perché vuoto è il nostro tempo, un'era senza valore, in cui tutto è demandato ad un aggeggio, lo smartphone, generatore di immagini-film pronto uso e vero centro propulsore di una socialità ridotta all'osso di un call & response, di appuntamenti mordi e fuggi, di sesso consumato in orge sbrigative il cui ricordo si dilava con l'ennesimo texting indirizzato a un nuovo appettibile profilo scovato online.
La desolante visione di Schrader si rispecchia nella sceneggiatura del romanziere Bret Easton Ellis, cantore della contemporaneità (American Psycho, vero vademecum all’apparire degli anni 80; Glamorama, ritratto di immarcescibile aderenza al presenzialismo anni Novanta; Lunar Park, il canto del cigno anni Zero dell’Io carnale, smaterializzato in una molteplicità di possibili identità virtuali; Imperial Bedroom: le rovine fumanti di oggi) che nasce dalle ceneri di un precedente progetto con Schrader, poi fallito e resuscitato in produzione crowdfunding a budget ridottissimo. Adesso che tutte le persone del mondo sono possibilmente conoscibili grazie alla rete - adesso che basta un clic per ottenere compagnia, sesso, consolazione - nessuno più conosce davvero qualcuno, siamo esseri trasparenti, sostituibili, effimeri, senza sostanza, senza identità, senza una vita privata, vivi fin quando ciò che si compie è reso pubblico in rete, un’umanità sterile che punta al disfacimento. Inutile pretendere sussulti umani e profondità (tutto è superficie, tutto è esattamente quello che appare: this is just this, è il nuovo Christian verbo) dagli automi che “vivono” in The Canyons, assurdo pensare a uno studio dei caratteri per i suoi personaggi-fantoccio: lo scrittore (com’è suo costume) impone la sua weltanschauung, che è, in tutta evidenza, quello che interessa anche Schrader, il cui sguardo, come quello di Ellis, è da sempre profondamente, essenzialmente morale.
Siamo un coacervo umano desensibilizzato in cui la gelosia è il paradosso massimo nel quale far ardere la sete di violenza: l’omicidio è allora puro, gratuito riflesso condizionato dal Potere, perché anche il gioco erotico (i personaggi come corpi scopanti e scopabili) non è altro se non l’ennesima, nefanda partita per conquistarlo (imporre la propria volontà sull’altro, che è poi quanto sottintende la pratica del cinema industriale statunitense, vera e propria factory dell’imposizione, cfr. Mulholland Drive) e dove i soldi sono il modo tangibile (visibile?) per gestire le situazioni emotive.
Riflessione a più livelli dunque: scomparsa dell’umanità, decadenza del cinema, umanità e cinema che si incrociano nei corpi-feticcio prescelti: quello di Lindsay Lohan, innanzi tutto, e quello di James Deen. Evidente il portato extra-testuale per i due (la Lohan - magnifica, vibrante, al bivio di una carriera sempre in bilico - mette chiaramente in scena se stessa e la sua parabola artistico-esistenziale; James Deen viene dal porno e incarna a dovere il carisma robotico di un corpo che vuole comandare e godere), parti di un casting tipicamente schraderiano (fatto spesso di devianze e imprevedibilità, più che di scuole attoriali).
Prediligendo un approccio quasi teatrale - di inespressività straniata e (insultatemi) bressoniana - lunghi discorsi a due, attraverso i quali si dipanano, quasi per vie indirette e narrative, le trame che intrecciano relazioni pericolose (con Christian/Deen che orchestra gli eventi, novello Valmont che crede di muovere pedine, ma che non ha il controllo della situazione, solito personaggio ellisiano che si sopravvaluta e crede di dominare la realtà), The Canyons è un dramma nero e diaccio, epocale alla lettera, che surclassa modelli che agonizzano nelle ultime, disperanti formule ammiccanti, nelle terminali soluzioni piene di senso che ancora guardano al cinema come a una fabbrica di illusioni, là dove, per dirla con Ellis, esso vive la sua volgare, decadente era post-Empire. In The Canyons il corto circuito a cui siamo giunti, invece, è servito nudo al punto da imbarazzare.
Quando un film hollywoodiano disillude (anatema) si preferisce sottostimarlo, dileggiarlo esorcizzarlo con un risatina: solo domani (come sempre accade) si accetterà la cinica verità di queste immagini, cristallizzate, a quel punto, in eloquente, incriticabile pietra tombale.
Bret Easton Ellis (sceneggiatore) e Paul Schrader: in maniere differenti, due visioni comuni del moderno, basti pensare ai punti di contatto fra quest’opera, American Gigolò (sempre ambientato a Los Angeles, ma più cupo: qui la fotografia è volutamente solare e con colori sgargianti di plastica) e Cortesie per gli Ospiti, oppure al similare sguardo distante e/ma morale(ista) con cui i due autori adocchiano la contemporaneità svuotata e di superficie. Lo Schrader bressoniano, poi, sottrae sempre più, gira in video e, come lo scrittore, pur cavalcando un racconto che potrebbe essere “glamour” per l’ambientazione hollywoodiana, scabroso per i congressi carnali e le perversioni, thriller per la presenza di uno psicopatico, fa sembrare il film tutt’altro, qualcosa fra l’amatoriale (per budget, non per risultati) e lo sperimentale. Il problema è questo: il film è un contenitore vuoto come il mondo che rappresenta e come il suo titolo (baratri vuoti). Lo spettatore che si diletta a riempirlo con “cose sue” trova il capolavoro, quello cui piace essere “servito” pensa di avere di fronte un oggetto vacuo o pretenzioso o incapace di dettagli ed annotazioni minime per fornire una pallida chiave di lettura. È senz’altro vero che non sono casuali le fotostatiche sui titoli di testa che raffigurano cinema e teatri abbandonati, che questi personaggi che lavorano nel cinema non lo amano veramente e/ma diventano essi stessi “cinema”, essendo tutti (tranne Gina) attori nati, mentitori, registi che amano il controllo: il film potrebbe essere la rappresentazione critica della morte del cinema in sala, con fiorir di mezzi alternativi per fruirlo o farlo o non contarlo più fra le priorità (o per produrlo: Schrader ha usato la piattaforma Kickstarter, costo totale 250.000 dollari). Potrebbe, ma non è ciò che viene a galla: ci sono un triangolo, un modo perverso di vivere il sesso di coppia, una donna amata da due uomini che preferisce l’agio all’amore e, su tutto, la raffigurazione di un uomo affetto da psicosi. Varie azioni a seguire: ma il cinema non è Cluedo o non dovrebbe esserlo. Perché, negli spazi vuoti lasciati dal suo raccontare, le letture “valide” e condivisibili diventano così tante da annullare la presenza di una “regia”.