Horror, Netflix, Thriller

THE CALL

Titolo OriginaleKol
NazioneCorea del Sud
Anno Produzione2020
Durata112'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche

TRAMA

Nel 2019 la giovane coreana Kim Seo-yeon perde il cellulare mentre è in viaggio per visitare la madre malata in una zona rurale. Arrivata nella fatiscente casa d’infanzia trova un telefono cordless vecchio di decenni: attraverso di esso inizia a ricevere chiamate da una donna in difficoltà, che sostiene di essere torturata dalla sua stessa madre. Dopo aver indagato Seo-yeon scopre che la donna al telefono, Oh Young-sook, si trova nella stessa casa ma nel 1999. Le due sono in grado di comunicare nel tempo attraverso il telefono e scambiarsi informazioni sulle loro vite…

RECENSIONI

Liberamente ispirato all’horror The Caller (2010) di Matthew Parkhill, il trentenne sudcoreano Lee Chung-hyun esordisce su Netflix con un telephone movie molto apprezzato in patria: la lunga tradizione del film telefonico, che in Oriente passò per il J-Horror di inizio millennio, viene qui ravvivata attraverso un cordless. La telefonata dal passato è dunque rigorosamente analogica: non c’è uno smartphone ma il cimelio di un’altra epoca che, proprio per questo, diventa oggetto magico che crea il punto d’accesso tra i due livelli temporali. Così il regista allestisce il suo gioco: in montaggio alternato tra i “tempi” sviluppa un’altalena fra presente e passato in cui, come sempre, ogni azione può cambiarne un’altra (e vale per entrambi i piani). Il thriller sfiora l’horror per poi riparare nel sottogenere del serial killer movie: la giovane del passato, ipotetica vittima, rovescia la sua figura rivelando gradualmente la vera essenza. L’andamento più grave e strategico dell’incipit vuole costruire un’atmosfera, cesellare un umore narrativo: nella seconda parte lascia spazio al film d’azione, in cui le ragazze giocano la partita a scacchi delle variazioni, ogni mossa dell’una influisce sull’altra e viceversa.

Il racconto di genere avanza per stereotipi consapevoli, per simboli facili (vedi le fragole), mettendo continuamente in dubbio la sostanza anche materica dei personaggi che si disintegrano quando il passato modifica il presente, vanno in pezzi come i frammenti di un vetro. Il congegno di The Call sembra complesso ma è più immediato della sua spiegazione: comprese le regole il dispositivo scorre automatico, nel suo nolanismo for dummies non privo di un aspetto videoludico, che passa dalla sfida d’astuzia alla sequenza d’azione per finire nel twist, con un epilogo che finge la riconciliazione materna e poi serve il finale a sorpresa. Lee Chung-hyun prova a fare un “cinema di forma”, un esercizio di genere che non vuole dire, non lancia messaggi ma basta a se stesso e vive delle sue soluzioni - soprattutto di montaggio -, nella spirale di un butterfly effect potenzialmente infinito. Ma il ritmo è altalenante, il gioco dura troppo e sconfina nel previsto: presto il lavoro di sfilacciamento sul tessuto della realtà offre l’alibi per cui “può succedere di tutto” (quindi anche niente di particolare). Va comunque riconosciuto l’onore delle armi.