TRAMA
Cecil Gaines, per trent’anni maggiordomo nero alla Casa Bianca, ricorda il suo passato.
RECENSIONI
Il Filmone Americano sui diritti civili a volte ritorna. The Butler 'dice' subito dove vuole parare: carrellata su piantagione di cotone, i neri lavorano sfruttati dai bianchi, un ragazzo assiste all'omicidio del padre. A seguire lo stesso giovane, Cecil, si libera dalla schiavitù lavorativa ma entra nell'indigenza economica: per uscirne, egli rovescerà la concezione oppressiva dell'atto di servire e - con l'aiuto di un mentore - renderà questa servitù un lavoro, imparando gradualmente il mestiere di maggiordomo. Tutto aumentato dai primi piani su volti sofferti e campi/controcampi ad alta temperatura emotiva, enfatizzato dal commento musicale di Rodrigo Leão. Siamo già nell'epica americana, non asciutta ma retorica e magniloquente, con sottolineature volute sui punti più caldi dell'intreccio. D'altronde il Filmone è un genere: comprende - ad esempio - una divisione manichea in montaggio alternato, il padre che serve i bianchi mentre il figlio vuole essere servito in sfida alla segregazione.
E’ chiaro cosa abbiamo davanti: un racconto esclamativo che procede orizzontale, ponendo evidenti i suoi temi, lanciando (poco) tra le righe i messaggi. Questi sono incastonati dentro una ricognizione sulla Storia che ripassa scenari politici (dal dopoguerra al Vietnam), presidenti (da Eisenhower a Obama), evoluzioni nel movimento (da Luther King alle Black Panthers). Da parte sua Cecil attraversa il catalogo indifferente alla politica, composto dinanzi alle visioni più razziste, ma scontrandosi col figlio ribelle, amando e respingendo la moglie, affrontando perdite (la morte del secondogenito nella “sporca guerra”) e gioie (il sincero ossequio dei presidenti). Nella sua figura riposa il volto sovversivo dell’essere maggiordomo: questi uomini, che servirono i bianchi fino ai massimi livelli, goccia dopo goccia guadagnarono il rispetto comune, decostruendo la stessa idea di razzismo attraverso l’estrema dignità e la cultura del lavoro. In tale ottica il maggiordomo non solo serve ma si serve, quindi, agendo sotto copertura nel sistema per manometterlo dall’interno. Anche la “rivoluzione dei maggiordomi” però, centro teorico dello script, viene detta e spiegata, evocata e presto tralasciata.Daniels, arrivato all'high budget dopo Precious, vuole il successo di The Help ma ottiene 'il film che non andrà all'Oscar': per formare la prospettiva peculiare dal suo personaggio - infatti - affronta troppi nodi cruciali, spesso con la semplificazione della cartolina (i vari presidenti, parata di attori), limitandosi all'illustrazione o scivolando nettamente fuori fuoco (Nixon stravolto dal Watergate, un ridicolo Cusack). Le tappe sono sostanzialmente prevedibili, fra materiali di repertorio e veloci zoom sul Novecento, la retorica non è alta ma la voce implicita si limita a ripetere le cose giuste, il comodo finale annaspa nel miele. Whitaker regge con discreta disinvoltura il ruolo della vita, ma la maschera maggiordomica (formale/fuori - tormentato/dentro) è troppo spesso condannata dallo script. Tra le almeno 10 comparse note, invece, quasi scontato scegliere Alan Rickman come Reagan dubbioso e 'progressista'.
Insomma: l’ambizioso Lee Daniels’ The Butler (dai credits finali) è lontano sia dall’affresco black quadrato e credibile (semplificando molto, per capirci: il primo Spike Lee), sia dalla riscrittura della figura del “maggiordomo”, sfiorando solo tematicamente Stevens di Quel che resta del giorno (il passato rievocato in flashback, l’abiura ai sentimenti) e i molti servitori di Gosford Park (il conflitto di classe su doppio piano: i salotti contro le cucine). Qui invece c’è cinema affermativo, esplicito a uso della comprensione, che riduce la complessità all’evidenza: tutto un altro butler, Filmone permettendo.