
TRAMA
Tre decenni di vita dell’architetto ebreo László Tóth, emigrato dall’Ungheria negli Stati Uniti nel 1947, dopo essere stato detenuto nei campi di concentramento tedeschi.
RECENSIONI
Concepito inizialmente intorno al 2017, The Brutalist non può certo essere accusato di flirtare con l’attualità. Eppure, nessun film più di lui, oggi, affronta di petto ciò che ci scoppia in faccia ogni volta che consultiamo le news: il crinale appena visibile, ma duro come il marmo, tra antisionismo e antisemitismo.
Immaginario architetto ex-Bauhaus scampato all’Olocausto che sbarca in Pennsylvania dopo la guerra, vivacchia di stenti e viene ingaggiato da un miliardario locale per costruire un centro civico multifunzionale nelle sguarnite colline tra una cittadina e l’altra, László Tóth si chiama come l’ingegnere ungherese che nel 1972 prese a martellate la Pietà di Michelangelo.
Perché? Perché la via all’ebraismo di Tóth (quantomeno il Tóth inventato da Corbet) è quella di articolare forma e materia in modo tale che la seconda non scompaia nella prima, ma anzi riveli la loro mancata sintesi. Troppo illuminata dalla forma, la Pietà dunque doveva tornare all’inanimato della pietra. In linea con il tardo-modernismo postbellico che voleva traghettare nel nuovo mondo tardo-capitalista i lasciti delle avanguardie della prima metà del secolo, Tóth concepisce e realizza i suoi edifici con un intento apertamente utopico-comunitario, e il bene della comunità, per lui, consiste nel tenere sempre presente l’Eterno fuori di sé. E l’Eterno fuori di sé è ciò che non si lascia processare, lavorare, scolpire. Ciò che resiste qualunque tentativo di plasmarlo plasticamente.
La via all’ebraismo della nipote di Tóth, che lo raggiungerà insieme alla moglie (e da lì le cose cominceranno ad andare a rotoli) prima di emigrare in Israele, vede, al contrario, solo la forma, e sarà lei (usurpando l’opera della zio) a ridialettizzare forma e materia, una ventina d’anni più tardi, subordinando la seconda alla prima nel pieno dell’orgia delle superfici chiamata “postmoderno”. Contaminata irreversibilmente dal protestantesimo dei ricchi mecenati per cui lavora Tóth, il cui pragmatico attivismo non è che l’altra faccia di un senso di colpa ormai totale, costei (interpretata dalla stessa attrice che interpreterà la figlia: marchio di un pressoché demoniaco suprematismo interrazziale che troviamo pari pari anche in Childhood of a leader e Vox Lux, sempre di Corbet), risolve la dialettica tra forma e materia spostandola su quella tra forma e narrativa. Al trauma (l’Olocausto) si risponde redimendolo in storia, costruendo il futuro come una redenzione del passato e come una sua diretta, lineare conseguenza, dalla potenza all’atto, rimuovendo ciò che va rimosso fuoricampo (se nella prima metà del film i tasselli narrativi si susseguono uno dopo l’altro con impeccabile, meticolosa linearità, nella seconda ci sono ellissi più pesanti della pietra), invertendo l’incubo nel suo esatto contrario, capovolgendo lo sterminio in un’utopia da realizzare affermando una comunità con un proprio territorio e un proprio Stato che sia (ed è questo il punto fondamentale) senza residui, e senza più nulla al di fuori di sé. Magari replicando il trauma stesso, su altri (questo The Brutalist naturalmente non ce lo dice, ma se non è il minore dei suoi fuoricampo, è ormai senz’altro quello più difficile da negligere).
Lasciando le riconciliazioni tra forma, materia e narrazione a chi ne ha bisogno per costruirsi un brand autoriale su cui prosperare dentro l’odierna società dello spettacolo (Paul Thomas Anderson: impossibile non pensare al suo Petroliere, che qui si scontra con La fonte meravigliosa di King Vidor annullandosi a vicenda e diventando una terza cosa completamente diversa), Corbet cerca di rendere giustizia all’estetica e alla visione del mondo di Tóth contro quelle della nipote. Lo fa con la mente, il cuore e le orecchie al suo massimo nume tutelare, Scott Walker, la cui musica è stata un tentativo miracoloso di traghettare nel mainstream, contro il postmoderno imperante, ciò in cui nella seconda metà del Novecento era mutata la rivoluzione del serialismo musicale di inizio secolo.
Il suono in quanto tale, involato dalla melodia, Corbet lo va a cercare (insieme a Tóth e al suo mecenate WASP a caccia di marmi per il loro edificio) a Carrara. Le ammalianti venature del blocco di marmo che qualche goccia d’acqua basta a rivelare sono il modello della sua drammaturgia: scene tendenzialmente lunghe, ritmicamente rilassate anche se mai informi, scolpite da non più di una-due dominanti visive e alleggerita da qualche sparuta modulazione ai margini la cui funzione sfuma volentieri i confini tra il decorativo e lo strutturale. Se lungo tutto il film scene più brevi contribuiscono a intervallare questi “blocchi” affastellati uno dopo l’altro e a fornire un minimo di varietà tonale, è la natura di questa alternanza a cambiare tra la prima metà (che in un biopic tradizionale – ciò che The Brutalist NON è – corrisponderebbe all’ascesa) e la seconda (la caduta). Come Tóth crea sale di lettura quasi circolari, in cui la prospettiva è solo una falsa prospettiva sostituita da un’attenzione “stereofonica” verso ciò che sta tutt’intorno, la linea teoreticamente ascendente composta sulla carta, e solo sulla carta, dalla narrazione (incarico da parte dei mecenati – sblocco informale dei finanziamenti – pitch con gli stakeholder – presentazione del progetto alla comunità – inizio dei lavori) è negata nelle singole scene da una regia che le sviluppa ispessendole “lateralmente” a tutto discapito dell’imperativo drammaturgico del guardare avanti in linea retta. Il movimento progressivo in linea retta ascensionale viene dunque “inzavorrato”, frenato dallo spessore e dal respiro che Corbet concede a ogni sua scena. Ne risulta completamente demolito qualsiasi trionfalismo implicito in imprese del genere, in sintonia con l’umiltà di Tóth il cui sguardo è volto sempre a ciò che non si lascia redimere. Lo spreco, la droga, le donne. La moglie, soprattutto, indistinguibilmente supporto emotivo e materializzazione (attraverso la sua malattia) di quella disfunzionalità che è l’unico cordone ombelicale tra l’umano e l’Eterno, e che definisce Tóth stesso. Sdoppiandosi in un fantasma in carne ed ossa (la moglie, sua immagine allo specchio), Tóth non potrà più sdoppiarsi oggettivandosi nell’Opera.
Nella seconda parte, l’alternanza tra blocchi più “impegnativi” e di alleggerimento serve a metterci davanti, attoniti, una dopo l’altra a scene potenzialmente madri che però non diventano mai tali, perché il loro potenziale drammatico (il coriaceo confronto a letto tra marito e moglie con la seconda che gli si masturba addosso; l’emergere di grosse tensioni sessuali tra il figlio del mecenate e la nipote di Tóth, il licenziamento di quest’ultimo) viene negato da una regia che, invece, persiste nell’orizzontalità, nell’indugiare su personaggi che, attoniti anche loro, vengono paralizzati da una situazione più grande di loro e che dunque non comincia nemmeno a trovare espressione figurativa. Al posto del climax, un clamoroso anticlimax che conferma in pieno la linea che era andata creandosi attraverso tutte queste scene: il trauma non è qualcosa che erutta come lava da un vulcano (conformemente all’ottica della nipote), non un movimento dal dentro al fuori, dalla potenza all’atto, ma la rivelazione di un’inerzialità che non sta né dentro né fuori e che non ha né tempo né movimento; la rivelazione, sorda, di ciò che semplicemente sta lì e che nulla può perturbare; piani che sfogliandosi uno dopo l’altro lasciano vedere il marmo che sta sotto, e sotto il quale non c’è che altro marmo. L’oggetto, freddo. Un nucleo duro di bellezza, secondo la definizione apparsa in sogno a Tóth, e proferita paradossalmente proprio dalla nipote.
La squillante alleanza tra (e l’olimpica nitidezza di) colori, volumi e definizione del VistaVision 70mm utilizzato da Corbet ci fa riacquisire familiarità con ciò che all’assai meno squillante alleanza postmoderna tra forma, materia e narrazione sfugge completamente, e che è più eterno della pietra, e di questa, in fondo, il vero telos: la luce che si posa sulle superfici. È lì, in fondo, il punto del film, e dell’ineccepibile teorema che costruisce intrecciando Storia, razza, religione. Non conta la destinazione, ma il percorso per arrivarci. Non l’oggetto, ma quella sua quarta dimensione, dinamica e non figurativizzabile, chiamata “luce”. Non la linea che brucia il sogno dell’equilibrio instabile tra forma e materia in una sintesi senza residui, ma il loro magnetico, dinamico attrarsi e disallinearsi. Ciò che il cinema, monumento “di” e “a” ciò che scorre (il tempo) capta meglio di qualunque monumento, di qualunque oggetto artistico.
