TRAMA
Mar Mediterraneo: alcuni marinai salvano un giovane annegato. Preda di un’amnesia, il ragazzo trova sotto la propria cute un microfilm recante un numero di conto di una banca svizzera, e scopre di essere…
RECENSIONI
Primo volume di una trilogia che ha rilanciato lo spy movie ad alto budget, The Bourne Identity è forse il capitolo più compiuto della saga tratta dai romanzi di Robert Ludlum. Non il più riuscito, ma il più compiuto, quello che meglio riesce a conciliare premesse ed esiti, muovendosi con una certa abilità nelle maglie di un genere (il giallorosa con una robusta iniezione di action) che certo non lascia grande spazio alla creatività. La regia, nelle salde mani di Doug Liman, non conosce i tormenti, e neppure i compiacimenti, dei successivi film affidati a Paul Greengrass: il ritmo è la cosa più importante in questo thrillerone canonico, dotato di belle scenografie europee (il massimo del lusso per una produzione statunitense!) e pregevoli coreografie d'azione (anche se il tutto si risolve in un turbine di esplosioni prevedibili quanto assordanti). La prima mezz'ora è intrattenimento di classe, e induce a sperare in uno svolgimento del compito un poco superiore alla media. Purtroppo prevale la prudenza (a ogni livello: scrittura, direzione, recitazione) e i promettenti indizi d'ironia (la sequenza all'Hotel Regina, in cui la perizia di Bourne è resa inutile dalla soave intraprendenza della sua partner, vero uovo di Colombo) si smarriscono in un'improbabile, fiacca apoteosi della voglia di normalità (e paternità) che domina anche le superspie. Matt Damon "abita" bene il personaggio, ma è sprecato in una parte così granitica e piatta che sarebbe capace di mettere in imbarazzo lo stesso Ben Affleck. Per fortuna c'è Franka Potente, capace di conferire al film quel tocco adorabilmente rétro su cui la sceneggiatura non sa o non vuole indugiare.
Adattamento del primo capitolo (pubblicato nel 1980) della trilogia dedicata all’agente Jason Bourne dallo scrittore Robert Ludlum (produttore esecutivo), già adattato per il piccolo schermo da Roger Young con Richard Chamberlain come protagonista. Finalmente un nuovo, seminale approccio al genere: Doug Liman (anche produttore) gira in modo incisivo le scene di violenza, utilizzando inedite accelerazioni digitali e puntando molto sulle tecniche di lotta: soprattutto ben dosa azione e stasi, sfruttando a dovere anche i silenzi eloquenti, le emozioni inespresse, il cuore pulsante dietro il pugno. Il suo spy-action è veloce ed efficace, paga i dovuti pegni al genere (da segnare la lunga sequenza con acrobazie della mini) ma può contare su di una sceneggiatura (William Blake Herron e Tony Gilroy) che, invece che limare sugli espedienti desueti della trama (la perdita della memoria, l’oppresso ignaro dei propri poteri, il ribaltamento del ruolo carnefice/vittima), lavora di “pancia” sull’esaltazione dello spettatore, trasforma lo smemorato in una variabile ingestibile nell’era dell’iper-controllo, sottolinea gli elementi paradossali (un agente senza identità che perde la memoria, una macchina nata per essere invisibile che diventa vistosa), modifica la turistica circumnavigazione del globo degli agenti segreti in riflesso identitario (l’americano smemorato vaga per l’Europa), stira la tensione fino allo strappo catartico della brutalità all’ultimo sangue (stando dalla parte del “giusto” e micidiale). La felice intuizione di Liman è quella con cui rimarca in modo intelligente e credibile questo punto di vista dell’uomo ‘normale’ che si scopre letale.