TRAMA
Nei laboratori S.H.I.E.L.D. si maneggia il Tesseract, un Cubo Cosmico IperEnergetico. Ma qualcosa va storto perché compare Loki, il fratell(astr)o di Thor, armato di non propriamente buone intenzioni. C’è da salvare il mondo. O eventualmente da vendicarlo.
RECENSIONI
Quello che non funziona, o che funziona meno, in The Avengers deriva dalla necessità di ottemperare a troppe esigenze: fedeltà al fumetto, equidistribuzione dei tempi (anche emotivi) da dedicare ai personaggi, coerenza interna nella continuity cinematografica, appetibilità a più livelli blockbusteriani, afflato epico, stemperate camp, iperironia postmoderna, autoironia metacinematografica. Il risultato è, letteralmente, altalenante. Ci sono momenti in cui il fanboy Whedon se la cava alla grande: c’è un piano sequenza (ovviamente) digitale, nel corso della battaglia urbana, che cristallizza plasticamente i vari caratteri e modus operandi dei Nostri, ben amalgamando una tronfia spettacolarità à la Michael Bay con un cuore artificiale ma pulsante. Ci sono altri aspetti decisamente meno centrati, a cominciare da una sceneggiatura farraginosa, compressa eppure sfilacciata, piegata ai dettami dell’operazione, che si (s)fregia anche di emblematici passaggi oscuri (l’improvviso autocontrollo di Hulk); meno a fuoco ci è parso anche l’impianto ironico del film, che alterna episodi riusciti (l’apologia dell’anacronismo di Capitan America) a eccessi un po’ spiazzanti che rischiano di rompere “incanto” (e continuità): la critica antishakespeariana indirizzata da Stark all’eloquio di Thor e Loki (vs. Branagh), il pugno slapstick sferrato da Hulk allo stesso Thor, i rimandi “altri” (Hawkeye chiamato Legolas dal solito Downey Jr.). Tutte trovate che, prese singolarmente, funzionerebbero anche ma che, stipate nei 140 minuti di pellicola, finiscono per non trovare una collocazione organica e rischiano di privare The Avengers di un’anima da prendere – si fa per dire – “sul serio”.
Il film segna comunque un ulteriore passo avanti nell’avvicinamento intermediale Cinema-Fumetto, con i due mondi convergenti/paralleli sempre più pronti all’interscambio culturale. Del fumetto, ormai, il cinema non mutua solo personaggi e storie ma anche i meccanismi di funzionamento (cfr. la pratica del reboot). Così, come I Vendicatori erano nati, nel 1963, dall’idea di creare un dream team Marvel che portasse all’interazione supereroistica tra albi autonomi, così il progetto cinematografico (preannunciato nel post-titoli-di-coda di Thor) ha l’ardire di edificarsi su 4 produzioni cinematografiche distinte (Iron Man, Hulk, Capitan America e Thor) mettendole – e mettendosi – in discussione, non senza correre qualche rischio. E infatti, come si accennava in apertura, ora si potrebbero aprire problemi di continuity all’interno dei futuri sequel delle saghe coinvolte. Esattamente come avvenuto nelle varie controparti cartacee (si pensi, a titolo di esempio, a tutta la questione Crisis e Post-Crisis, relativa all’universo DC). Ma vabbè. The Avengers “in sé” è entertainment cinefumettaro più che passabile. 3D competente.

Tra gli appassionati dei comics esiste un altro spazio-tempo noto come Universo Marvel, la cui comprensione può risultare assai problematica ad un non iniziato. Allo scopo di inimicarceli già da principio potremmo sostenere che il centro di quest'universo è l'Agente Coulson, pur rischiando di lasciare i profani all'oscuro della portata blasfema dell'affermazione. Spieghiamo: l'Agente Coulson pur essendo da decenni al servizio della S.H.I.E.L.D., l'agenzia di intelligence che gestisce le grane nell'Universo Marvel, è noto soltanto per sei apparizioni cinematografiche (Iron Man, Iron Man 2, Thor, The Avengers e i cortometraggi The Consultant e A Funny Thing Happened on the Way to Thor's Hammer), a cui ha fatto seguito un digicomics per rendergli i meritati onori (Iron Man 2 – Phil Coulson. Agent of S.H.I.E.L.D.). Creatura eminentemente cinematografica, l'Agente Coulson si innesta nel fumetto nonché nella serie cartoon Ultimate Spider-Man con un'operazione che un purista di certo non approverebbe. Immaginiamo il sospiro di sollievo con cui è stata accolta la sua morte in The Avengers (non è uno spoiler, e anche se lo fosse non ce lo saremmo tenuti). La centralità del personaggio, dunque, risiede nella sua natura cross-mediale, estremamente sfuggevole rispetto alle logiche derivative dell'“adattamento”. Altrettanto si potrebbe dire di Nick Fury, il cui aspetto fisico, molto mutato dai natali del 1963, si rifa all'attore Samuel L. Jackson che lo impersona al cinema.
La forma cross-over propria del film The Avengers, ovvero l'intreccio di personaggi di diversa provenienza letteraria, fa proliferare a dismisura la questione filologica, alla quale, per non semplificare le cose, si potrebbe abbinare una non meno spinosa questione omerica. Prima un passo indietro: che cos'è The Avengers? Giacché la semiotica ci ha insegnato ad essere scaltri, diremmo semplicemente: un testo. Può darsi. Allora la relazione tra questi e le varie cellule che lo circondano (i film in cui compare l'Agente Coulson, per farla breve) sarebbe semplicemente intertestuale. Eppure è ancora più complesso: bisogna considerare il doppio movimento cinema-fumetto, e nondimeno fare entrare nel novero i prodotti televisivi, i prodotti pubblicitari (si pensi al ruolo dei trailer in queste vicende), i prodotti di marketing, persino i prodotti del fandom (notoriamente indomito e agguerrito nonché, per questo, tenuto in considerazione). La tesi niente affatto ardita che si vorrebbe portare avanti, in fin dei conti, è dopotutto semplice: piuttosto che considerare The Avengers un film preferiamo riferirci all'universo mitologico, del quale esso sarebbe una specifica concrezione. Il mito è una narrazione esplosa in forme e modelli che costituiscono un sapere condiviso, un rizoma pulsante, una risposta possibile ad un interrogativo cosmico.
Altro pregio della forma cross-over è il principio, per così dire etologico, che anima gli ideatori di reality come il Big Brother: mettere un gruppo di casi vari assieme e vedere che succede. Il supereroe, però, è per definizione individualista e gli improbabili attriti che derivano dalle convivenze sono forse la maggiore attrazione dei prodotti del genere. Non meno degni di interesse i leganti, nello specifico rappresentati dall'arcinemico Loki e dal martire Agente Coulson, il cui rapporto è rigidamente speculare (alto/basso, alieno/terrestre, divinità/burocrate, onnipotenza/impotenza, notorietà/anonimia). Senza la morte di Coulson (Uno), il gruppo di supereroi (cinque, sei o sette) non sarebbe diventato I vendicatori (Uno). Loki, invece, non è anch'esso Uno, bensì Altro, quindi il male per antonomasia. Una simile articolazione esibisce così spudoratamente l'ideologia politica che la muove che non sembra nemmeno il caso di spenderci ulteriori parole. I personaggi di Iron Man e di Captain America, rappresentanti rispettivamente il neocapitalismo “buono” e il nazionalismo “aristocratico” (e quindi anacronistico), d'altronde, sono persino più espliciti.
Un aspetto perturbante della narrazione, sul quale si giocano interessanti effetti di pathos, è la natura di Hulk, costantemente in bilico tra la lucidità dello scienziato e la furia incontrollabile della bestia pronta a ritorcersi contro i suoi stessi alleati. Hulk è eccentrico rispetto al gruppo per un semplice motivo: non ha un oggetto (al contrario, Iron Man ha l'armatura, Thor il martello, Captain America lo scudo, Occhio di Falco l'arco, la Vedova Nera il corpo di Scarlett Johansson [1]). Hulk è un fascio di pulsioni senza oggetto e quindi senza possibilità di soddisfacimento, ovvero simbolicamente – in termini freudiani – desiderio, il cui sfogo avviene per sublimazione. Pur essendo normalizzato, Hulk è più potente, e dunque più distruttivo, degli altri supereroi, ai quali andrebbe di conseguenza il titolo simbolico di bisogni (l'oggetto soddisfa la pulsione distruttrice). Anche Loki, da parte sua, è desiderio, ma è mosso da una pulsione creatrice, seppure ai nostri occhi leggermente sconveniente.
Il messaggio? Meglio canalizzare la libido. Non sono cose che piace sentirsi dire da un film di supereroi, ma che suonano più plausibili nella bocca di un mito. Specie se si tratta di un mito di salvezza (per gli specialisti: soteriologico) il cui significato, in epoca – si dice – post-postmoderna, ha un retrogusto un po' amaro. Ma almeno, grazie al cielo, non si tratta di Salvezza. Forse.
[1] Sembrerà una boutade o una lettura politicizzata, d'accordo, ma la messa in scena del corpo di Scarlett Johansson risponde delle dinamiche cui sono delegati gli oggetti dei supereroi, i quali nello scontro con il nemico vengono alternati con l'abilità del potere (generalmente fisico) proprio dello stesso supereroe. La scena del duello verbale tra la Vedova Nera e Loki, acme dello scontro tra i due, è interamente costruita sulle natiche dell'attrice.
Giuseppe Fidotta & Jacopo Torriti

Progettata e annunciata da anni in coda ai film Marvel, non delude la versione cinematografica dei “Vendicatori” creati da Stan Lee e Jack Kirby nel 1963, merito del regista-sceneggiatore Joss Whedon: scrittore di fumetti, co-sceneggiatore non accreditato di X-Men, conosce le traiettorie della complessa cosmogonia, non solo nei segni nozionistici ma (soprattutto) nello spirito che la anima, che replica alla perfezione nel tipo d’ironia, epica dello scontro, caratteri (disegna l’Hulk più fedele alle strisce: stessa forza primordiale inarrestabile alternata, anche con poca coerenza, all’essere senziente). Capace umorista (era fra gli sceneggiatori del serial “Pappa e ciccia”), inserisce una serie di battute e gag divertenti, creando vicinanza con i superomismi gloriosi d’una coralità di prime donne gestite miracolosamente (supereroi e superdivi: quasi tutti hanno già avuto il film dedicato), dotate del segno distintivo che le stagli a prescindere dal tempo a disposizione, fornite di background coerente con le pellicole precedenti e di una motivazione, un modo di interagire con gli altri. Come già testimoniato dal suo serial fantascientifico Firefly, Whedon non ama affidarsi alla mera spettacolarità: contano i personaggi e le relazioni in essere. Il racconto “tipico”, con i supermalvagi che minacciano la Terra e i superbuoni a contrastarli, si gioca sul tema “fare o non fare gruppo”, sulle differenze inconciliabili prima e quelle complementari poi (in questo s’ispira alle prime uscite degli albi anni sessanta). Il resto del miracolo lo fanno i capitali ben spesi: 260 milioni di dollari, non solo per una grafica digitale eccellente (il 3D è posticcio ma funziona) ma anche per la messinscena “live-action” stile Transformers, fra sconquassi in città, duelli esaltanti, super poteri e tremori da fine del mondo. Quello che fa la differenza è lo storyboard con la sua geometria delle scene, raggiungendo lo zenit nella lunga battaglia di Manhattan, dove Whedon s’inventa anche un “finto” piano sequenza per seguire tutti i vendicatori in azione. Deboli i personaggi Occhio di Falco e Vedova Nera (più letale ed ambigua sulla carta stampata), gratuito il pistolotto finale di Nick Fury che sottolinea l’ovvio: ma ripaga la sorpresa dopo i titoli di coda.
