Drammatico, Recensione

SWEET SIXTEEN

Titolo OriginaleSweet Sixteen
NazioneGran Bretagna
Anno Produzione2002
Durata106'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Una cittadina nei pressi di Glasgow. Liam ha quasi sedici anni, una madre in carcere e il desiderio di chiudere i conti con un passato che continua a farlo soffrire.

RECENSIONI

Le stelle silenziose e crudeli sono l’unica sorgente di luce nella vita di un adolescente che non ha i mezzi, il tempo e, di conseguenza, la voglia di diventare adulto. Forzato a vivere in un mondo in cui la dipendenza (dalla droga, dai soldi, da persone indegne di essere nominate, figuriamoci amate) mangia l’anima, il corpo e tutto il resto, Liam alimenta quasi rabbiosamente la speranza di un futuro migliore, ma il rancore brucia i castelli in aria (la placida collina che sembra librarsi sopra lo squallore della città) e la ragione più affettuosa si rivela inutile di fronte a un amore cieco, una ferita che non è destinata a rimarginarsi [il finale aperto, o meglio squarciato, citazione non imbecille (caso isolato) de I QUATTROCENTO COLPI]. SWEET SIXTEEN (che fra parentesi è un titolo splendido, dotato di un’ironia sanguinaria che ammicca a John Hughes e soci) è un dramma dello sguardo oltraggiato (le continue, infallibilmente ingannatrici visioni mediate dal riquadro di una finestra), una Passione che di infantile ha soltanto l’età del protagonista, e che, purtroppo, Loach non riesce a rendere interessante da un punto di vista cinematografico: qualche buona trovata (la scorribanda in automobile, accompagnata da un’aria del Flauto Magico che può essere collegata in molti modi al nucleo centrale della vicenda), una magnifica fotografia, livida e monocorde, di Barry Ackroyd e interpretazioni persuasive non bastano a salvare il film, affossato da una sceneggiatura (di Paul Laverty) colma di annotazioni scontate e parole inutili (perché sciupare la bellissima scena, quasi una Pietà in sedicesimo, in cui la sorella di Liam gli medica le ferite inserendo un monologo della ragazza, che non aggiunge nulla alle immagini e le appesantisce di greve moralismo da fiction?) e vacuamente indecisa fra una sterile vocazione al naturalismo e una sconfortante tentazione melodrammatica. Vince, ai punti (di sutura), la tentazione melodrammatica, accessoriata di superfluo finale all’arma bianca. Dopo il brillante e autenticamente disperato NAVIGATORS, un Loach medio, che scivola nel mediocre à la BREAD & ROSES ma se ne risolleva (almeno in parte) con la sagace descrizione di un mondo criminale in cui le leggi del capitalismo polverizzano persino i sani codici mafiosi. O tempora o mores!